“Se parliamo nello specifico di Till The End, è indubbio che tutto quello che ho vissuto abbia influito sulla stesura del testo. Non so se sia il mio testo più personale, di certo è molto intenso e credo siano quei testi che ti escono davvero ogni vent’anni, quindi bisogna fare in modo che non vadano persi. Come dicevo, non ho paura di morire, né tantomeno mi preoccupo del dopo, ma di certo ho compreso meglio due cose: che ho dei limiti, ma che non mi ci voglio nemmeno arrendere. Insomma, ho capito che anche io morirò, ma non voglio certo passare gli ultimi anni in un ricovero (ride, ndr). Per il resto, credo di non essere cambiato poi tanto come songeriter: non mi sono messo a parlare di gloria celeste o di Dio, né tantomeno sono diventato più profondo, anche perché lo sono sempre stato nella giusta misura. Per concludere, Till The End sostanzialmente dice che farò questa vita per sempre.”
Con queste parole, pochi mesi fa, Lemmy Kilmister mi aveva salutato dandomi appuntamento per il prossimo febbraio a Milano, dove i Motörhead avrebbero tenuto un attesissimo concerto. L’occasione dell’intervista me l’aveva data chiaramente l’uscita di Bad Magic, ultima fatica della band e, sebbene dal vivo Lemmy sembrasse ormai destinato ad un inesorabile declino, in studio aveva tirato fuori nuovamente tutto ciò che gli rimaneva dopo una vita vissuta sempre al limite. La notizia improvvisa della morte, provocata da un tumore al cervello diagnosticatogli poche ore dopo la grande festa al Whisky A Go Go per i suoi settantanni, lascia senza parole tutti gli appassionati di musica, non solo i metallari come da giorni si legge sulla stampa nazionale. Lemmy non era un’icona metal, come è stato prontamente definito da quasi tutti i media italiani, era un’icona e basta, come Mick Jagger o David Bowie. Con lui, per altro, scompare probabilmente l’ultima rockstar, intesa come figura mitologica in grado di fare della propria esistenza una stile di vita. Eccessivo, ambiguo, contraddittorio, ma anche coerente, leale e completamente libero, Lemmy ha saputo diventare un punto di riferimento tanto per gente come Brian Adams che per i Red Hot Chili Peppers, per esempio, e non solo per qualche metallaro stramboide, come pare uscire dalle notizie generaliste che intasano il web in queste ore. In modo forse un po’ romantico mi è sempre piaciuto pensare che la sua figura fosse qualcosa di molto simile a quella di Lou Reed, tanto che l’influenza dei Motörhead sulla musica pesante potrebbe essere paragonata a quella che ebbero i Velvet Underground alla fine degli anni sessanta per centinaia di band. Al di là delle dietrologie varie, comunque, l’invito migliore arriva dalle persone vicine a lui: ascoltate i Motörhead a tutto volume, bevetevi un drink o due alla sua salute e, aggiungo io, cercate di essere sempre fedeli a voi stessi. Dimenticavo, almeno questa volta scriviamo il nome della band correttamente.