I just wanted to say that these will be my final show performances in London. When I say this is it, it really means this is it” (Volevo solo dire che queste saranno le mie ultime performance a Londra. Quando dico che finisce qui, vuol dire davvero che finisce qui).
Michael Jackson
“The dream is over, what can I say?” diceva John Lennon nel 1970, constatata la fine della magnifica favola dei Beatles. La stessa frase probabilmente si è insinuata nella mente dei milioni di fan di Michael Jackson sparsi per il mondo al momento dell’annuncio della scomparsa di una delle maggiori icone musicali del secolo scorso. Un attacco cardiaco la probabile causa del decesso, anche se le insinuazioni che da anni rincorrono la figura di Jacko non hanno smesso di perseguitarlo nemmeno nell’unico momento in cui, forse, sarebbe stato solo meglio tacere. Secondo il più classico dei copioni, sulle ultime ore della sua vita si sono già dette tante, troppe cose e molte altre se ne diranno nei mesi a venire; l’unica sensazione che davvero resta è l’amarezza e la compassione che ogni morte, illustre o meno, si porta con sé. L’ondata collettiva di emotività che ha sommerso ogni angolo del globo è stata in qualche modo amplificata dal fatto che, solo tre mesi fa, l’autore di Thriller aveva shockato tutti annunciando il suo ritorno sulle scene dopo quasi quindici anni di inattività live. Michael Jackson lascia quindi il mondo dei vivi alla vigilia di quella che avrebbe dovuto essere la sua trionfale rivincita umana e artistica su un decennio che l’aveva visto protagonista più per fatti extra musicali che per via del suo talento smisurato. Un vero e proprio tour (de force) che l’avrebbe visto protagonista di ben cinquanta date, tutte presso l’O2 Arena di Londra, fino alla fine di marzo dell’anno prossimo e che sarebbe servito a risanare in parte un bilancio ormai compromesso. Per lui avrebbe rappresentato l’ultima chiamata prima del ritiro, per gli addetti ai lavori si trattava invece di una totale follia. Nessuna assicurazione si era infatti sobbarcata il rischio di coprire l’evento: sostenere tutto ciò sarebbe stato davvero difficile per un uomo segnato nel fisico e nell’animo come Michael ed è triste pensare che le estenuanti session di allenamento a cui si sottoponeva da mesi possano aver contribuito alla dipartita dell’inventore del moonwalk. Il music business perde così in un solo colpo la più grande fonte di guadagno che sia mai riuscito a partorire ed uno dei cinque o sei musicisti più grandi di sempre, con il quale ha voluto collaborare qualunque, e sottolineo qualunque, artista (da Freddie Mercury, a Paul McCartney a Mick Jagger solo per citarne alcuni) e che ha scritto alcune delle pagine più belle della musica popolare di sempre. Una vita di successi clamorosi, superiori per vendite persino a quella dei Fab Four (ai quali poi comprerà i diritti, per poi rivenderli negli anni della crisi), di premi e di record ancora imbattuti: senza scomodare l’album più venduto della storia, forse molti non sanno che History rimane ad oggi il doppio album più venduto di sempre, più dei vari The Beatles (il White Album), The Wall o Exile On Main Street. Oppure che Invincible, ultima fatica da studio pubblicizzata dai media come un totale flop, fu acquistato da più di trenta milioni di persone. Per intenderci, più di quelle che comprarono Bad in piena JacksonMania. Per non parlare poi dell’importanza che Jackson, considerato superficialmente solo il King Of Pop, ha avuto per la danza: lo stile innovativo, inventato da sé e migliorato di continuo fino a raggiungere livelli vicini alla perfezione all’inizio degli anni novanta, ha stregato persone alle quali della sua musica interessava poco o nulla. Fred Astaire lo definì, un po’ enfaticamente, il più grande ballerino di tutti i tempi e se va da sé che le opinioni siano quanto di più soggettivo ci sia al mondo, è anche vero che la caratura di chi le espone possa avere una valenza di un certo rilievo.
Tutto perfetto, quindi? Non proprio. Quella che all’apparenza poteva sembrare la vittoria assoluta del sogno (afro)americano prima della venuta di Obama (un nero poco più che ventenne divenuto uno degli uomini più potenti del pianeta), nascondeva già al suo interno i semi della malattia, mentale prima ancora che fisica. L’esser costretto dal padre padrone a pressioni e sforzi non consoni alla sua tenera età, unito al fatto di trovarsi a contatto con un mondo, quello adulto, che mal si sposava con le esigenze di un bimbo, portò il piccolo MJ a sviluppare fobie, ansie ed insicurezze che lo hanno accompagnato fino alla morte. Un percorso inizialmente parallelo e ben distinto dai suoi successi, ma che col tempo finì inesorabilmente per minarli per sempre. Se, infatti, più o meno fino all’uscita di Bad nessuno aveva mai parlato del genietto americano se non per il suo talento, dopo le immagini che lo vedevano impallidito e con connotati che si avvicinavano sempre più a quelli di Diana Ross, le prime polemiche iniziarono a piovere da ogni parte del pianeta. Se non fossero bastate le mutazioni fisiche (da sempre attribuite dal cantante ad una malattia della pelle conosciuta come lupus eritematoso sistemico), a queste si aggiunsero una serie di comportamenti quantomeno bizzarri che iniziarono a scalfire un po’ l’immagine fino ad allora intoccabile dell’artista. Le apparizioni al di fuori dei palchi cominciarono a diradarsi, fino a diventare veri e propri eventi mediatici che col passare del tempo si sarebbero ripetuti in maniera inversamente proporzionale al numero degli interventi sul volto. In particolare, fu il naso a subire i maggiori cambiamenti e ad attirare il più grande numero di imbarazzi a livello mediatico. Certo è che quando ci si trova a dieci anni ad essere insultato dal proprio padre con frasi come “hai uno schifoso naso da negro”, qualche strascico bisogna pure metterlo in conto… Insomma, un’esistenza fatta sì di trionfi mondiali, ma che una volta chiusa la porta si trasformava in ben altro. Si tingeva di colpo di immensa solitudine, che egli tentava inutilmente di colmare circondandosi di ogni tipo di lusso e stravaganza e di persone che vedessero ancora il mondo come lo vedeva lui: con gli occhi di un bambino. Neverland divenne così la più grande attrazione d’America, inquietante richiesta d’aiuto a cielo aperto, permeata di infantile abbandono dorato e scriteriato che solo una mente rimasta ad un infanzia mai vissuta poteva concepire. Come nella più diabolica sceneggiatura hollywoodiana, nel giro di pochi anni, anche l’impero economico iniziò a vacillare. Una serie di investimenti che definire azzardati potrebbe non rendere loro giustizia, uniti ad una credibilità messa in difficoltà dallo scossone grunge, ma soprattutto dalla prima accusa di pedofilia, fecero il resto. Il 1997, dopo un tentativo di riscossa con l’ambiziosissimo progetto di History, vide svolgersi l’ultimo tour mondiale dell’artista, che negli anni a venire passò il tempo tra matrimoni in successione (il più celebre quello con la figlia di un altro Re), eredi in provetta e continui guai fisici. Quando all’inizio del nuovo millennio venne annunciata l’uscita di un album di inediti, i fan, unica vera costante della sua vita, si precipitarono ad aiutare l’amico “invincibile” in difficoltà e garantirono ad un disco iperprodotto un successo forse superiore al suo reale valore. La vera notizia fu però rappresentata dal fatto che alla release sarebbe seguito un lungo tour di supporto. La seconda, più pesante accusa di pedofilia stroncò però sul nascere l’iniziativa, che sarebbe stata destinata a non avvenire mai più. Il processo che ne seguì fu molto più doloroso del precedente e, nonostante l’assoluzione fu totale e senza alcuna ombra, del vecchio Re Del Pop non rimaneva più nulla. Nemmeno il fatto che tutti gli psicologi e gli psichiatri interpellati avessero dichiarato Jackson assolutamente incompatibile con la figura clinica del pedofilo, poté porre fine alle speculazioni che si susseguirono dopo la conclusione del dibattimento.
Alla fine, dunque, chi era Michael Jackson? Un genio? Un uomo capriccioso pieno di vizi e gusti particolari o, al contrario un filantropo dalla generosità smisurata? Forse un po’ tutto questo, ma d’altra parte giudicare è una di quelle attività che preferisco lasciare ad altri. Di certo era un sognatore libero, un puro showman cresciuto con James Brown come modello ed un Artista non impegnato, che quando cercava di esserlo finiva per essere anche un po’ retorico, come d’altra parte siamo stati tutti noi prima di diventare adulti. Per concludere, un particolare alquanto sinistro. L’album di remix intitolato History In The Mix, pubblicato nel 1997, conteneva cinque brani inediti tra i quali spiccava l’inquietante ed ossessiva Morphine. Niente di strano, se non fosse che la canzone parlava proprio di un uomo morto d’infarto dopo un’iniezione di Demerol, il farmaco che secondo le dichiarazioni dei medici avrebbe causato l’infarto dello sfortunato musicista.