Jack Johnson è uno di quegli artisti sui quali sai di poter sempre contare: mai un’uscita fuori luogo, mai un atteggiamento da divo e una serenità d’animo contagiosa, che traspare anche dalle sue canzoni quasi fossero un’estensione della propria anima. Giunto al sesto album da studio, Johnson sembra ancora il ragazzino il cui unico scopo era andare in spiaggia, suonare una chitarra acustica e poi gettarsi tra le onde, tanto che ti guardi intorno per capire se all’interno della stanza dell’hotel ci sia una tavola da surf pronta a solcare le acque del Tamigi. Per rompere il ghiaccio e memore dei suoi trascorsi in una punk band ai tempi del liceo, mi presento a lui con una maglietta dei Misfits, che pare subito apprezzare…
«Oh, all I want to know all I want with just a touch of my burning hand, I send my Astro Zombies to rape the land prime directive, exterminate the whole human race and your face…(inizia a cantare Astro Zombies della band di Glenn Danzig appena nota la t shirt, ndr). Che gruppo fantastico i Misfits, penso uno dei più sottovalutati di sempre: anche se hanno venduto milioni di magliette, in pratica nessuno ne parla mai. Credo che nessuno alla fine degli anni settanta suonasse quelle cose e poi è arrivato il metal che si è preso molto del merito che sarebbe dovuto spettare a Danzig. Qualche volta in studio, nei momenti di relax, ci mettiamo a suonare qualche loro pezzo!»
Difficile pensare a te che canti Astro Zombies durante le session per un album così intimo come From Here To Now To You…
«Sai com’è, c’è un momento per tutto. Se mettessi delle telecamere all’interno degli studi di registrazione non penseresti più le stesse cose di me (ride, ndr). Amo moltissimo il processo di registrazione, soprattutto per quei momenti in cui usciamo un po’ dai binari di quello che che facciamo di solito. Dopo cinque o sei ore in cui suoni nuovo materiale, magari la stessa canzone per dieci volte, passare a qualcos’altro riesce a ricaricarti completamente. Serve a dare a me e alla band un po’ di slancio quando magari giungono dei momenti di stanca, che andrebbero ad inficiare la registrazione del brano cui stiamo lavorando. Un’altra cosa che faccio regolarmente è mettere in diffusione dischi che amo quando ci riposiamo per un po’ o quando mangiamo. Dipende dall’umore in cui mi trovo in un determinato giorno o magari da un accordo appena suonato che mi ricorda qualcosa di vecchio. Non ho paura di influenzare la mia musica con i miei ascolti, anzi ho sempre trovato di grande ispirazione l’ascolto dei dischi con cui sono cresciuto. Questa volta gli ascolti sono stati quasi esclusivamente David Bowie e T Rex, quindi credo che non ci sia posto migliore dove parlarne se non un albergo di Londra dietro Oxford Street: proprio qui dietro, ai Trident Studios, sono stati registrati alcuni degli album che amo di più.»
Quello che esce, anche dopo un solo ascolto, è la ritrovata serenità dopo un periodo piuttosto travagliato della tua vita. Musicalmente, poi, sembra un ritorno alle origini, a quello da cui tutto ha avuto origine. Molto probabilmente il tuo album più personale in assoluto.
«Non so dirti se sia il mio album più personale, anche perché credo che ogni album sia estremamente personale. Non scrivo mai di altre persone, non racconto storie successe a qualcuno che conosco e anche quando racconto una storia, il protagonista sono in qualche modo sempre io. L’album precedente era nato dal tragico evento della morte di mio padre, era un disco molto cupo, elettrico e sentito dalla prima all’ultima nota, quindi per certi versi anche quello potrebbe essere considerato il più personale. Se poi penso a quello ancora precedente, lì tutto nasceva dall’elaborazione del lutto per la perdita di mio cugino. Probabilmente più che personali, quelli sono stati album completamente terapeutici, che mi servivano per uscire da quei momenti davvero complicati e in cui non sapevo dove sbattere la testa. È stato un po’ come andare da uno psicologo, solo che riversavo le mie emozioni nelle canzoni e nel mare, da sempre il mio migliore amico. Se invece parliamo esclusivamente dei testi e del mood del disco, penso che From Here To Now To You sia il disco in cui rendo espliciti i sentimenti nei confronti della mia famiglia, dei miei figli. È stato difficilissimo elaborare la morte di mio padre, e probabilmente non sono ancora riuscito a farlo nel migliore dei modi, ma una cosa l’ho capita perfettamente: devi amare chi ti sta vicino e devi dirglielo in continuazione. So che non sarà una cosa molto rock n roll, ma c’è un momento per tutto, come ti dicevo prima. Questo è il momento della mia famiglia.»
Per l’occasione sei tornato a suonare quasi esclusivamente una chitarra acustica. Sei quindi convinto che non si possa parlare di certi argomenti in modo “elettrico”, per così dire?
«Assolutamente sì, solo che la mia sensibilità musicale mi fa diventare più “cattivo”a livello di suoni quando ho dentro di me della rabbia da sfogare. Si riallaccia sempre al discorso di prima: quando devo sfogarmi, quando vorrei urlare al mondo la mia rabbia per qualcosa esce il mio lato più elettrico. Non so se capisci cosa voglio dire. Non a caso quando ero davvero incazzato, come tutti gli adolescenti, suonavo punk e non canzoni con la chitarra acustica (ride, ndr). Se parli di tua moglie e dei tuoi figli e lo fai con il distorsore al massimo credo che potrebbe essere più difficile far cogliere il messaggio che vuoi comunicare, soprattutto nei paesi non anglofoni, dove la prima cosa ad arrivare è sempre e comunque la melodia. Da questo punto di vista amo di più quelle canzoni dal motivetto simpatico e accattivante che poi parlano di morti e tragedie, penso l’effetto sia più efficace in quel caso piuttosto che al contrario. Quello che ho cercato di fare, in ogni caso, erano brani che parlassero di me e della mia famiglia, ma che potessero diventare canzoni in cui ognuno sia in grado di riconoscersi. Penso chiunque si possa riconoscere in un brano come come I Got You, anche se è dedicato a mia moglie. Così come Washing Dishes, per esempio. Mi sono reso molto vulnerabile scrivendo certi brani, mettendo completamente a nudo cose che potrebbero sembrare anche ridicole, ma che ognuno di noi vive quotidianamente.»
Da un punto di vista concettuale From Here To Now To You mi sembra possa essere paragonato a Double Fantasy di John Lennon. Anche lui in quel caso celebrava la serenità che derivava dall’essere un semplice padre di famiglia. Senza contare che i testi dedicati a moglie e figli sono davvero lennoniani. Hai pensato per caso alla cosa?
«Oh mio Dio, non ci avevo pensato assolutamente, però ti ringrazio per l’accostamento. Posto che mi vergogno tantissimo anche solo ad essere messo nella stessa frase in cui compare il nome di John Lennon, mi fa molto piacere che qualcuno possa aver pensato questo. In effetti, senza paragonare minimamente i lavori da alcun punto di vista, credo che la cosa possa pure reggere in qualche modo. Una delle cose per cui adoro Double Fantasy è proprio quella voglia di Lennon di far vedere il lato umano, quello del padre, che prima non era mai venuto fuori. Non so se fosse legato solo ad un discorso relativo all’età, che in effetti combacia più o meno con la mia, ma il modo di mettersi a nudo e di dire “io sono anche questo”, in effetti, può essere una chiave di lettura in grado di legare i due album. Credo tuttavia che il processo grazie a cui si è arrivati alla composizione dei brani sia leggermente diversa: Lennon arrivava da cinque anni di silenzio e quelle canzoni, oltre a mostrarlo in una veste inedita, erano anche il segno della ritrovata voglia di fare musica, di uscire da quelle stesse quattro mura, io invece ho semplicemente raggiunto una sorta di equilibrio. In più, i brani dedicati a Yoko Ono arrivavano dopo anni burrascosi e, pur avendo avuto anche Julian dal precedente matrimonio, Sean era il primo figlio a godersi pienamente, mentre io ho potuto godermi in modo diverso i miei figli e non ho nulla da farmi perdonare da mia moglie (ride, ndr).»
Mi stai dicendo quindi che non ti viene mai voglia di scappare?
«Certo che sì, tre bambini sono sempre tre bambini. Non sarei umano altrimenti (ride, ndr). Però ho notato che una volta l’obiettivo era partire, andare in giro a suonare, conoscere gente e far conoscere la mia musica. Ora credo che l’obiettivo principale sia invece diventato quello di tornare dopo aver fatto tutte queste cose. Questo equilibrio lo vedo in ogni campo della mia vita, anche in quello professionale. Fino a poco tempo fa suonare dal vivo mi metteva angoscia, temevo sempre di non essere all’altezza, pur sapendo che chi veniva a vedermi era perfettamente conscio della mia proposta. In questo senso il mare mi è stato di immenso aiuto, perché mi fa capire ogni giorno quanto tutto sia insignificante e a portata di mano con un po’ di sforzo. È difficile da spiegare, ma quando sono da solo in mare tutto diventa immediatamente chiaro, anche le cose che per mesi mi hanno assillato. Forse anche perché in mare ho rischiato più di una volta di morire.»
Anche dal vivo hai dichiarato recentemente che inizi a preferire luoghi meno spaziosi, in cui poter interagire direttamente col pubblico. Solo che la cosa va a cozzare con le richieste sempre maggiori di biglietti per i tuoi show. I venti milioni di dischi venduti iniziano a costringerti a fare i conti con i pro e i contro della notorietà.
«No be’, diciamo che non vedo assolutamente nessun contro a tutto ciò che mi sta succedendo da dieci anni a questa parte. Qualcosa andava sacrificato e sono ben felice di questi sacrifici. Io continuo a vivere alle Hawaii, la mia vita è praticamente la stessa di quindici anni fa, solo che ora ogni tanto registro un disco per una major e poi parto per sei mesi in tour, direi che si tratta di un ottimo compromesso! Vivere alle Hawaii non è proprio come vivere a Londra, Los Angeles o New York: nessuno ti riconosce, nessuno invade la tua privacy e, in ogni caso, devo dire che il mio non è certo un pubblico di invasati, che cercano di strapparmi i vestiti di dosso quando mi incontrano. Proprio per questo dico che amo gli show intimi, perché chi viene a vedermi ha la sensibilità giusta per interagire con me e per comprendere appieno i miei messaggi. Credo che per altri artisti, soprattutto quelli che conoscono il vero successo di massa, queste siano cose impossibili. Anche io starei male se ai miei concerti venisse gente a storpiare i miei brani perché li ha sentiti alla radio per sei mesi, senza nemmeno capire cosa stia cantando. Io ho avuto entrambe le fortune, quella di vendere dignitosamente per poter fare una vita splendida e allo stesso tempo sono riuscito a mantenere un’integrità che mi permette di essere felice quando mi presento di fronte ai miei fan.»
Nell’album fai spesso ricorso ad un’accordatura aperta inusuale in si bemolle maggiore, cosa che non si era mai sentita in un tuo album. Ti piace sperimentare o la cosa è nata per caso?
«In realtà tutto è nato da un consiglio del mio amico David Crosby. Passiamo diverso tempo insieme, mi racconta delle storie incredibili e mi perdo ad ascoltare gli aneddoti che tira fuori ogni volta che stiamo ascoltando un disco insieme. David adora le accordature inusuali, quelle meno utilizzate, spesso va per tentativi fino a quando non trova un suono particolare, una melodia che gli fa capire di essere sulla strada giusta. Nel periodo in cui stavo componendo i nuovi brani era completamente fissato con questa accordatura, tanto che anche Ben Harper mi ha detto di averci parlato a lungo a riguardo. La cosa più bella è che quando si innamora di qualcosa sembra ancora un ragazzino alle prime armi e il suo entusiasmo diventa contagioso, quindi non abbiamo potuto fare altro che assecondarlo (ride, ndr). Avevamo anche pianificato di suonare qualcosa insieme sul disco, ma alla fine i suoi impegni con Stills e Nash si sono accavallati con le tempistiche della registrazione dell’album, quindi a malincuore abbiamo dovuto rinunciarvi. Ho i brividi all’idea di cosa sarebbe potuto succedere se avessi suonato sullo stesso brano con David Crosby e Ben Harper.»
Diciamo che hai voluto lasciare qualcosa per il prossimo album…
«Diciamo così, anche se ormai era tutto fissato e se ne avessimo parlato qualche mese fa non mostrerei tutta questa calma nel raccontartelo. In ogni caso mi ritengo già fortunatissimo ad avere Ben Harper su un mio disco, credo che alla fine degli anni novanta non avrei risposto altro alla domanda su quale fosse il sogno della mia vita, quindi non posso che ringraziare lui e il fato per avermelo fatto incontrare. Devo molta della mia fortuna a lui, mi ha portato in tour con sé, ha fatto conoscere al suo pubblico la mia musica e i suoi brani sono stati senza dubbio la più grande fonte di ispirazione della mia vita. Credo sia l’artista più influente e significativo della sua generazione, proprio come lo è stato Crosby per quella dei miei genitori.»