Venti Album Da Riscoprire

Sottovalutati, dimenticati, talvolta derisi: la storia della musica è piena di album da riscoprire, da riascoltare fuori dal contesto storico in cui uscirono, che spesso ne limitava il potenziale. Album talvolta celebri per una manciata di pezzi, ma ricchi di gemme nascoste o usciti dopo il capolavoro del gruppo, in grado di offuscarne la validità. Impossibile elencarli tutti, così come è impresa titanica accontentare i gusti di tutti i lettori. Ho provato a recuperarne venti, sperando di fare cosa gradita e, soprattutto, di farvi scoprire anche solo un brano di cui avete sempre ignorato l’esistenza…

 

The Rolling Stones – Out Of Our Heads (1965)

È vero, è l’album di (I Can’t Get No) Satisfaction, ma alzino la mano quanti di voi lo possiedono nelle proprie case…Questi erano ancora gli Stones delle cover R&B, quelli in cui il duo compositivo Jagger/Richards non aveva forse ancora capito appieno il proprio potenziale e che rimaneva ancora molto ancorato alle proprie origini. Più facile possedere qualche album dell’ultima fase della loro carriera nella propria collezione, piuttosto che i primi gioielli. È il momento di colmare le lacune.

 

The Beatles – Magical Mistery Tour (1967)

Sottovalutato un album dei Beatles? Succede anche questo…Se Revolver è considerato unanimemente l’inizio della nuova fase dei Fab Four, il White Album l’album più sperimentale e Sgt Pepper il capolavoro assoluto, la colonna sonora di uno dei pochi flop della loro carriera rimane un disco ricco di idee, che finì per essere schiacciato dal peso di dischi più blasonati, ma non così superiori. Strawberry Fields Forever, The Fool On The Hill, Penny Lane e I’m The Walrus: cosa chiedere di più?

 

David Bowie – The Man Who Sold The World (1970)

Uno dei grandi classici dimenticati degli anni settanta, schiacciato inesorabilmente dai successivi album del futuro Duca Bianco e penalizzato dall’assenza di un vero singolo spacca classifica che ne aiutasse le vendite. È qui però che nasce la poetica del Bowie che verrà, in grado di unire in modo distorto tanto i Beatles, quanto i Pink Floyd degli esordi, così come Hendrix e i Velvet Underground. Bowie da qui in poi sarà il proto artista per eccellenza, in grado di influenzare tutto e tutti, anche chi lo negherà fino alla morte.

 

Neil Young – On The Beach (1974)

È inspiegabile che un album come On The Beach sia stato pubblicato in cd solo da pochissimi anni e su insistenza dei fan più accaniti. Questo fatto non ha aiutato la riscoperta di un disco che, all’uscita, venne invece ben accolto da pubblico e critica: Walk On riportò in classifica Young dai tempi di Harvest e l’intero album è ricco di atmosfere sognanti e malinconiche, spesso sorelle di quelle di Tonight’s the Night, registrato nello stesso periodo. Ottima alternativa ai dischi più blasonati del cantautore canadese.

 

Queen – Queen II (1974)

Dici Queen e pensi subito a Bohemian Rhapsody o a We Will Rock You, ai riccioli di Brian May e alle incredibili doti di frontman di Freddie Mercury. In realtà, la band inglese più collezionata al mondo, prima di raggiungere la vera celebrità con A Night At The Opera aveva già dato alla luce più di una gemma: incredibile che si parli così poco di un album come Queen II, così ricco degli elementi che renderanno la Regina una delle band più amate dal pubblico. Il loro album più amato da Kurt Cobain…

 

Mott The Hoople – The Hoople (1974)

Di quanto sia stato sottovalutato l’ultimo grande album della formazione inglese potremmo parlare all’infinito. Mick Ralphs aveva già abbandonato la nave per formare i Bad Company, ma partecipò in parte alla composizione di un disco che per molti rappresentò l’esordio solista di Ian Hunter. Almeno tre i capolavori: Roll Away The Stone, The Golden Age Of Rock ‘n’ Roll e Marionette, che ispirò persino i Queen di A Night At The Opera. E andate a ripescare Saturday Gigs, nostalgico inno sullo scorrere degli anni che segnò l’inizio del sodalizio con Mick Ronson.

 

John Lennon – Walls And Bridges (1974)

Un album di transizione, composto durante il celeberrimo Lost Weekend lontano dall’amata Yoko e pregno di sentimenti opposti come la voglia di vivere la propria libertà e la nostalgia per la compagna. Per molti superiore a Mind Games, per altri l’ultimo disco di un certo tipo di Lennon, di sicuro un album che viene citato troppo poco. Ottima l’iniziale Going Down On Love, così come la straziante Nobody Loves You (When You’re Down And Out), la cui versione minimale presente nell’Anthology lascia ancora senza fiato.

 

Hanoi Rocks – Back to Mystery City (1983)

Se siete estimatori di Guns N’ Roses, Mötley Crüe e affini, questo album non dovrebbe mancare nella vostra discografia personale. Lo stesso Axl Rose non ha mai mancato di ricordare l’importanza della band di Michael Monroe e Andy McCoy per la sua carriera e per la sua crescita, così come chiunque abbia avuto una briciola di fortuna nello stesso ambito musicale. Come per tutti i precursori che si rispettino, il successo non arrivò mai…

 

Pink Floyd – The Final Cut (1983)

Qualcuno lo considera l’ultimo album dei Pink Floyd classici, nonostante l’assenza di Wright, altri il primo lavoro solista di Roger Waters: comunque la pensiate, The Final Cut ancora oggi appare come una sorta di costola (dimenticata) di The Wall. Gli incubi bellici di Waters questa volta si fanno contemporanei, anche se talvolta appesantiti da melodie un po’ prolisse, e la voce del bassista raggiunge vette di dolore mai toccate in precedenza.  Dimenticato troppo in fretta, anche a causa della lotta fratricida che ne seguirà.

 

Black Sabbath – Born Again (1983)

Frutto di una della collaborazioni più impensabili della storia del rock, Born Again venne bollato come pastrocchio pretenzioso e senza idee e deriso dai molti fan ancora legati a Ozzy e Ronnie James Dio. Tuttavia il tempo è galantuomo e rimargina tutte le ferite: oggi pochissimi di coloro che lo comprarono osano parlare male di brani come Trashed, Disturbing The Priest o della stessa Born Again. L’amore per Tony Iommi portò Slash a recuperare il riff di Zero The Hero per Paradise City e Ian Gillan non si esprimerà mai più a questi livelli.

 

Vasco Rossi – Cosa Succede In Città (1985)

Vasco ha sempre dichiarato di non amarlo particolarmente, soprattutto per via del brutto periodo dopo cui vide la luce: l’esperienza del carcere e l’opinione pubblica, pronta a cavalcarne ogni scandalo, avevano portato il rocker sull’orlo dell’abisso. Cosa Succede In Città divenne quindi un disco catartico per il Blasco, che lo riempì al solito di nostalgia, rabbia e…più tastiere del solito. Autobiografico e surreale, anche se meno goliardico che in altre occasioni, questo è il Vasco più diretto possibile.

 

Lucio Battisti – Don Giovanni (1986)

L’inizio della tanto bistrattata collaborazione con Pasquale Panella, in parte rivalutata negli anni dalla critica ma forse solo per via della prematura scomparsa di Lucio. Un album a tratti sublime, in cui i testi spesso al limite della comprensibilità di Panella si sposano perfettamente con le composizioni di Battisti, ancora una volta geniale innovatore della musica nostrana.  Consigliato a coloro i quali saltano a piedi pari tutto il periodo degli “album bianchi”, non ve ne pentirete.

 

Bruce Springsteen – Tunnel Of Love (1987)

Il destino di un album pubblicato dopo un best seller mondiale, in questo caso Born In The USA, è sempre segnato: incentrato sui fallimenti e le difficoltà di coppia nella vita quotidiana e nel matrimonio, Tunnel Of Love mostra un lato inedito del Boss, meno votato al sudore e più intimo. Le vendite non ne aiuteranno la diffusione, ma fior d’artisti oggi ucciderebbero per riuscire a scrivere pezzi come When You’re Alone o Valentine’s Day. Molto rivalutato dai fan nel corso degli anni.

 

Blue Öyster Cult – Imaginos (1988)

Albert Bouchard, qualche anno dopo essere stato allontanato dalla band che aveva contribuito a fondare, decide di rimettere mano a un vecchio concept ideato insieme al fido Sandy Pearlman molti anni addietro e di portarlo a compimento. Tuttavia, la Sony si oppose alla pubblicazione solista di Bouchard, che si era circondato di ottimi musicisti, e lo obbliga a richiamare i vecchi compagni di squadra. Il risultato è talvolta confusionario, ma carico di un pathos simile ai primi album. Sarebbe potuto essere il capolavoro dei BOC, è solo un ottimo disco.

 

Grant Lee Buffalo – Mighty Joe Moon (1994)

Per alcuni, il secondo album della band capitanata da Grant Lee Phillips rimane uno degli album più significativi di un intero decennio. Peccato che ancora oggi, quando si parla del gruppo, l’unico disco citato sia lo splendido Fuzzy, uscito pochi anni prima. I R.E.M. se li portarono in tour, ma in decenni così ricchi dal punto di vista creativo era inevitabile che qualcosa andasse perso. Mai una caduta di tono, mai un passo falso: un disco perfetto, di cui si parlerebbe ancora se fosse uscito dalle mani di un gruppo noto.

 

R.E.M. – Monster (1994)

Reduci dal successo clamoroso di Automatic For The People, considerato uno degli album più importanti degli anni novanta, i REM tornano in studio con Scott Litt e partoriscono un concentrato di chitarre distorte, suoni dissonanti e testi cupi che in qualche modo chiuderanno idealmente l’ondata grunge, appena segnata dalla scomparsa di Cobain. Non mancano note più pacate, come la semidimenticata Strange Currencies o la straziante Let Me In, dedicata proprio all’amico ex leader dei Nirvana.

 

Ac/Dc – Ballbreaker (1995)

Phil Ruud torna dietro le pelli dopo diversi anni, ricomponendo la formazione di Back In Black e la band chiama Rick Rubin con l’idea di apportare qualche cambiamento al proprio sound. Il risultato è un album per alcuni aspetti spiazzante, ma da riscoprire assolutamente, con alcuni brani che farebbero ancora oggi la loro porca figura in qualsiasi album dei fratelli Young. Oltre alla title track e alla celebre Hard As A Rock, The Furor e Burnin’ Alive spiccano per energia e potenza.

 

Alice In Chains – Unplugged (1996)

Se fosse morto nel ’96 e non nel 2002, quando ai media non fregava più nulla del grunge, oggi Layne Staley sarebbe sulle magliette dei ragazzi di mezzo mondo e questo disco sarebbe giustamente paragonato a quello analogo dei Nirvana. Invece gli Alice In Chains, pur essendo una delle cose più belle e intense uscite in quel decennio, non riuscirono mai ad arrivare davvero alle masse. Peccato, perché gli elementi c’erano davvero tutti e questo piccolo capolavoro è ancora qui a dimostrarlo.

 

U2 – Pop (1997)

Per molti resterà sempre l’album di Discothèque, anche se chi ha avuto la pazienza di andare oltre il primo singolo sa bene che Pop è molto di più. Criticato, demolito e talvolta deriso ai tempi dell’uscita, ancora oggi Pop risulta invece fresco, pieno di idee e molto più creativo dei lavori della band dal 2000 ad oggi. Oltre ad essere senza dubbio l’album più sperimentale di Bono e compagni, l’album contiene alcune delle ballate più intense del gruppo, tra cui If God Will Send His Angels e, soprattutto, Wake Up Dead Man.

 

Guns N’ Roses – Chinese Democracy (2008)

Quando, dopo un’attesa di ben quindi anni, vide finalmente la luce il nuovo album della band di Axl Rose, in pochi si misero davvero ad ascoltarlo, troppo presi a deriderne la gestazione e i cambi infiniti di formazione. Grave errore: nonostante la differenza di sonorità col passato, il buon Axl dimostra di essere ancora tra noi e di non aver perso la capacità melodica che, insieme ai comportamenti bizzarri, aveva contribuito a renderlo l’ultima vera rockstar della storia. Da ascoltare senza pregiudizi.