Meanwhile: La Recensione Del Nuovo Album Di Eric Clapton

Quasi in sordina, o comunque facendo pochissimo rumore, lo scorso 4 ottobre è uscito (per ora solo in digitale) il nuovo album di Eric Clapton, il primo dal 2016, se si esclude l’album natalizio di un paio d’anni dopo a cui nemmeno il buon Eric era riuscito a sottrarsi. C’è un grande paradosso dietro l’uscita di Meanwhile, qualcosa che lo fa sembrare più un progetto da artista di e per generazione Z, che da uno dei pochi superstiti della golden age del rock ‘n’ roll. L’album, che in formato fisico uscirà solo alla fine di gennaio, comprende infatti otto singoli usciti a partire dalla fine del 2020, uniti a sei brani nuovi di zecca, per una pratica che fino ad oggi sembrava più appannaggio di giovani star, che di un’istituzione di più di ottant’anni come Clapton. Forse anche per questo motivo, l’hype intorno a una pubblicazione così altisonante non è stato quello che si poteva immaginare. O forse, semplicemente, siamo rimasti in pochi a pensare a un suo nuovo disco come ad un evento epocale. Di fatto, nell’insieme l’album sa inevitabilmente un po’ di già sentito e il rischio è che tra tre mesi, quando le copie fisiche raggiungeranno i negozi, sembrerà una raccolta di rarità (già sentite) piuttosto che un vero e proprio nuovo album. Insomma, in questo senso Meanwhile sembra un ibrido capace di fallire sia in digitale che per gli affezionati del supporto fisico. Fatta questa considerazione puramente commerciale, al primo ascolto è comunque forte il senso di frammentarietà, proprio perché Meanwhile non è frutto di un’urgenza creativa istantanea, ma di più intuizioni spalmate nel tempo. Eppure, più lo si ascolta e più ci si accorge che negli ultimi quattro anni Slowhand di cose da dire ne ha avute e che, forse per la prima volta in sessant’anni di carriera, ha messo insieme il suo album più politico in assoluto. Politico in modo controverso, spiazzante e forse un po’ ingenuo, ma decisamente non la semplice manciata di standard blues che ci si poteva immaginare e che, tutto sommato, era stata messa insieme proprio per  l’ultimo I Still Do. Intendiamoci, di blues ce n’è e anche parecchio, ma da un po’ di anni Clapton ha decisamente dato più risalto alle proprie opinioni personali, che al semplice sfoggio di classe e al voler mantenere la sua immagine di musicista mitologico. Quasi come se non gli importasse più nulla di mantenere l’aplomb sostanzialmente innocuo degli ultimi decenni. E in più lo fa da sobrio, quindi nel pieno delle proprie capacità mentali e non, come era capitato in passato, mosso da stati alterati della mente che gli avevano fatto perdere credibilità e amici. A farci capire la nuova strada, pochi mesi fa, c’era già stato To Save a Child: An Intimate Live Concert, i cui proventi erano andati ai bambini di Gaza, che presentava due brani inediti dedicati proprio al dramma in corso in Palestina, ma per rimarcare il suo intento politico Clapton decide di aprire Meanwhile con Pompous Fool, invettiva contro Boris Johnson pubblicata proprio nel giorno delle dimissioni del premier inglese. La stessa rilettura di Sam Hall, vecchio traditional ripreso in più occasioni anche da Johnny Cash e che racconta la storia di un Robin Hood realmente esistito, è sentita e fortemente in tema con le nuove velleità di Clapton. Certo, quando dà voce ai brani di Van Morrison contro le restrizioni anti-covid, più che un ribelle Eric sembra un pelo rincoglionito e fuori tempo massimo, ma musicalmente i brani si fanno apprezzare per il loro piglio decisamente incazzato. La sensazione comunque è che la scelta più saggia sarebbe stata quella di pubblicare la sola The Rebels, sempre a nome Slowhand & Van, che pur partendo sostanzialmente dalle stesse teorie di Stand and Deliver e This Has Gotta Stop, finisce invece per trasformarsi in un tributo alle maggiori figure di rottura della loro generazione e non solo, da Jim Morrison a David Bowie, da Patti Smith ad Axl Rose. Sempre in tema di omaggi, splendide sono le versioni di Moon River in compagnia di Jeff Beck e Always On My Mind, dedicata ai novant’anni di Willie Nelson, in duetto con Bradley Walker. La cosa più spiazzante è forse la scelta della successione dei brani, che non sembra seguire nessuna regola, né tematica né di cronologia di pubblicazione dei brani già editi. Capita quindi di pensare a un Clapton malinconico e quasi arreso e subito dopo all’esatto opposto, quasi ad indicare tutte le emozioni vissute in una vita mai banale e costellata di drammi e grandi rinascite. Smile o One Woman potrebbero essere due brani della sua fase fine novanta inizi duemila, un po’ laccati ma perfetti alla Blue Eyes Blue per intenderci, ma poi improvvisamente Eric tira fuori un coltellaccio e ti dilania (sapendo di farlo) con un pezzo come The Call, blues straziante che sembra davvero un commiato. Forse il migliore possibile.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *