Quando arriva la notizia di un tributo per Bowie non si può che gioire. Qualche mese fa Mike Garson, il pianista che con Bowie aveva condiviso gran parte del suo percorso artistico, annuncia la data per quello che sarebbe stato il tribute concert per l’artista inglese scomparso ormai dal 2016. La curiosità per questo evento, in ricordo della nascita di David Robert Jones, ha inevitabilmente messo insieme un misto di aspettative ed emozioni.
Aspettative aumentate dal lungo digiuno di esperienze condivise come i concerti. Il primo pensiero che ti passa per la testa è che non ci può essere niente a livello esperienziale di così forte e travolgente come ascoltare musica live e farne a meno, ormai, è diventato impossibile. Con un po’ di sano scetticismo, sospendi il giudizio in attesa di vedere cosa sarà.
Il live streaming apre con i Duran Duran e il loro omaggio a Five Years. Sì, loro, che anche grazie a Bowie compongono le prime canzoni, e già inizi ad avere la sensazione che forse questo non sarà come tutti gli altri concerti in streaming che fino adesso ci siamo sparati (con cose anche piuttosto discutibili). No, qui hai subito la percezione che qualcosa sarà diverso.
Insomma, hai appena letto i nomi ed è proprio per quello che hai preso questo biglietto: leggi di una formazione epica e inizi a fidarti della possibilità di apprezzare ciò che vedrai.
Così si susseguono con la velocità dello streaming i prossimi nomi. Inevitabilmente ti concentri su quelli che ami di più. Passando da Billy Corgan, che, trasmesso da un televisore a tubo catodico che rende tutta la distanza da galassie lontane, interpreta con grande intimità la sua versione di Space Oddity. Non la più toccante ancora, ma si va avanti aspettando.
Inizi a entrarci e ti lasci andare, soprattutto sai che è tutto per il Duca Bianco. Gary Barlow, canta Fame con la forza giusta che porta questo pezzo: esibizione di gran rispetto, da lasciare quasi senza parole. Corey Glover canta una versione divina di Young Americans, rappresentando tutto l’amore che Bowie aveva per la musica nera, tanto da strappare perfino un sorriso a Garson mentre lo accompagna al piano.
Tante le donne. Tra queste, Anna Calvi in jazz con Bring Me the Disco King, Macy Gray, Judith Hill, Taylor Momsen e Gail Ann Dorsey, vicinissima a Bowie per moltissimo tempo, che ci emoziona nella sua versione di Can You Hear Me. E ancora Trent Reznor dei Nine Inch Nails, anch’egli fortemente influenzato dalla musica di David, con una coinvolgente Fantastic Voyage e una fedelissima Fashion. Potrei soffermarmi su ognuno di loro, perché in qualche modo ognuno ha messo il suo grande amore per Bowie. Perry Farrell, enigmatico nella versione di The Man Who Sold The World, porta con sé teatralità e tanto di maschera del Fantasma dell’Opera, fino ad arrivare ad uno dei momenti più alti dello show, quando Taylor Hawkins e Corey Taylor accompagnati da Dave Navarro su Rock ‘n’ Roll Suicide e Hang On To Yourself, passano dal grunge al punk senza farci dimenticare che quei pezzi vengono tutti dall’universo Bowie. L’energia cresce e si avverte nel passaggio difficilissimo dell’interpretazione di Ian Astbury di un pezzo come Lazarus.
Subito dopo il passo cede a Boy George e, quando credi di aver già visto uno dei momenti più rilevanti della serata, parte il suo medley di Aladdin Sane e sogni letteralmente guardando la sua gestualità teatrale (e la sua figura androgina), ricordando che quella era solo un’altra delle cento anime dell’ex Ziggy Stardust.
Tutto va avanti tra performance e scenografie impalpabili e d’effetto, per introdurci al momento di Ian Hunter con la sua personalissima Dandy e l’indimenticabile All the Young Dudes, pezzo che Bowie diede generosamente ai suoi Mott the Hoople. Quest’ultima, insieme alla performance di Joe Elliott con Ziggy Stardust, hanno meglio raccontato l’anima della serata di Los Angeles al resto del mondo. Uno show che in qualche modo ci ha unito solo per un giorno, ma con una voglia smisurata di poter ascoltare tutto ciò che di meraviglioso e irripetibile ci è stato lasciato da Bowie.
Abbiamo visto grandi interpreti, abbiamo goduto ad ascoltare Garson e gli altri componenti (quasi cento musicisti), che con Bowie avevano condiviso palco e successi. Chi lo conosceva e quei pezzi li aveva suonati e risuonati. Come da pronostici, il finale è lasciato a Heroes, che si porta via queste tre ore di suoni e visioni che un po’ hanno riempito l’assenza della musica dal vivo che troppo ci manca e che per sua natura non può essere immobile. Augurandoci un futuro migliore e ricordandoci, soprattutto, che abbiamo avuto la fortuna di conoscere forse uno tra i più grandi artisti che il ventesimo secolo ci abbia dato.