Roger Waters e Nick Mason si presentano puntuali e probabilmente ignari del becero qualunquismo con cui Virginia Raggi li aveva appena presentati, quindi vogliosi di soddisfare le curiosità dei presenti circa la mostra, ma anche l’intera storia della band. Quantomeno, questo è ciò che crede il presentatore dell’evento, che forse eccede in sicurezza, dando il via ad una serie di domande imbarazzanti tutte incentrate sul passato del gruppo.
Se il bonario Mason, da anni sorta di memoria ambulante dei Floyd, non dà l’idea di scomporsi più di tanto, è invece Waters a dare il via ad alcuni di quei monologhi che l’hanno reso celebre e di cui il novanta per cento della produzione del gruppo inglese è infarcita. Ha lo sguardo incazzato dei bei tempi, Roger, e lo si capisce immediatamente, quando, imbeccato per l’ennesima volta sul testamento lasciato nella storia della musica dalla band, sbotta con la rabbia di un ventenne: “Sì, la mostra è davvero bella, sono orgoglioso di ogni cosa che abbiamo fatto io, Nick, David e anche Syd, ma vi ricordo che questo è il presente, non il 1970. A me alla fine di questa mostra non interessa nemmeno più di tanto, onestamente. Non sono un membro dei Pink Floyd da più di trent’anni, non so se vi ricordate. Io sono in tour da anni e lo sarò ancora a lungo, ho un nuovo album che parla delle cose di sempre, perché il mondo fa schifo come allora. Vi chiedo retoricamente se sia questo il mondo che volete. Il mio no. Questo è un pianeta destinato all’estinzione“.
Dopo averla toccata piano in questo modo, il clima cambia inevitabilmente e tutto diventa terribilmente interessante. Mason, gregario per eccellenza, lascia praticamente la parola al solo Waters, che può quindi continuare a spiegarci la sua idea di giustizia e di uguaglianza sociale: “Siamo tutti africani, non dimenticatelo. Tutti. Fino a quando ce ne fotteremo di chi abbiamo accanto sarà sempre tutto più terrificante”.
Per un attimo, ti convinci che il vecchio Rog sia sempre quello di un tempo, quello di The Final Cut o Amused To Death, per molti ancora la cosa più vicina allo spirito dei Pink Floyd post separazione. Ti illudi quasi che, essendo rimasti in vita proprio i tre musicisti che incisero The Final Cut, da lì a breve, il Genio creativo dei Pink Floyd annunci un tour mondiale per celebrarne i trentacinque anni dall’uscita. Cosa folle, chiaramente, anche se a ben vedere la Maggie contro cui si scagliava ai tempi, avrebbe poco da invidiare ai nuovi padroni della terra.
Al di là di tutto, la sensazione è che Waters tema di rimanere invischiato nel passato, di ricordarsi forse che quei momenti non torneranno più, oltre a rivendicare legittimamente una carriera che è tutto fuorché una pallida imitazione della sua band d’origine. Qualsiasi siano i sentimenti che una mostra del genere sia in grado di smuovere nei suoi protagonisti, vista da fan, Their Mortal Remains è qualcosa di stupefacente, un viaggio sensoriale in un’epoca che inevitabilmente non tornerà mai più, ma che iniziative di questo tipo possono contribuire a tenere viva.