Purtroppo, negli ultimi anni, celebrare David Bowie è diventata una triste consuetudine. Lo sanno bene i milioni di fan sparsi per il mondo che, non riuscendo a rassegnarsi alla scomparsa del fu Duca Bianco, continuano ad affollare eventi più o meno ufficiali in cui poter cantare e, in qualche modo, superare un lutto così difficile da elaborare. Se in Italia le cose migliori in questo senso le abbiamo viste fare ad Andrea Chimenti e Andy Fluon, due che hanno vissuto una vita a pane e Ziggy Stardust, all’estero le iniziative più rilevanti hanno sempre coinvolto musicisti che con il fu Duca Bianco suonarono nel corso della propria vita. I primi nomi a venire in mente sono chiaramente quelli degli Holy Holy, il progetto nato dalle menti del batterista degli Spiders From Mars Woody Woodmansey e del produttore Tony Visconti e Celebrating David Bowie, appunto, messo insieme da un’ensemble di amici, musicisti e compagni di avventura di Bowie. Ciò che era nato un anno fa come evento sporadico sull’onda della commozione, oggi è diventato un vero e proprio tour, che nei giorni del secondo anniversario della scomparsa dell’autore di Heroes non poteva che trovare ospitalità a Londra, nello storico Sheperd’s Bush Empire. In un locale pieno al limite della decenza, il gruppo messo insieme da Mike Garson, l’uomo che più di tutti accompagnò David onstage, ha quindi dato vita ad una serata segnata inevitabilmente dalla nostalgia, ma in cui nemmeno per un istante si è avuta la sensazione di assistere a un mero sfoggio di stile. Oltre che dalla voglia di intonare nuovamente i classici di un artista ancora così influente sulla cultura internazionale, il pubblico inglese è stato attirato dalla presenza di musicisti che per lunghi anni hanno fatto parte delle band di Bowie, in diversi momenti e periodi musicali sparsi lungo quarant’anni di carriera. È stata forse questa l’idea migliore di Garson: unire musicisti che potessero affrontare un po’ tutte le ere musicali di Bowie, dando modo alla gente do godere della scaletta più esaustiva possibile. Molto interesse, naturalmente, era stato destato dall’annuncio della presenza di brani mai suonati in vita da David, come quelli tratti da The Next Day e Blackstar, che infatti sono stati accolti con ovazioni superiori ad altri brani più classici. Ad ogni modo, obiettivo sostanzialmente raggiunto: canzoni più inflazionate come Ziggy Stardust, Life On Mars o Fame hanno convissuto con Rock ‘N’ Roll Suicide, Golden Years e Scary Monsters, ma anche con improvvisazioni al piano di Garson e Gerry Leonard, tra i protagonisti assoluti di quello che fu l’ultimo tour di Bowie, nel lontano 2003. Tra le presenze più toccanti, sicuramente quella di Andrew Belew, che molti dei presenti avevano visto suonare con Bowie negli anni novanta, ma che per ogni fan di Bowie rappresenta qualcosa di più di un semplice turnista. Il chitarrista dei King Crimson è apparso il più in forma, ha cantato ogni singola canzone, anche quelle che non prevedevano il suo ruolo dietro al microfono, confermando nuovamente tutto il suo amore per la discografia di Bowie. Toccanti, in questo senso, D.J. e Boys Keep Swimming, oltre che la conclusiva Heroes, suonata da tutti con evidente trasporto. Peccato per le assenze di Earl Slick, assoldato per le date americane del tour senza Belew e di Gail Ann Dorsey, bassista di riferimento dell’ultima parte di carriera di Bowie, sostituita comunque egregiamente da Carmine Rojas, membro della storica formazione che diede vita a Let’s Dance e Tonight. Un’ultima citazione e va sicuramente all’invasato cantante dei Fishbone Angelo Moore, che con i suoi travestimenti e il fedele theremin ha omaggiato al meglio la teatralità del Duca e a Joe Sumner, figlio di Sting e vera sorpresa della festa, sia nelle vesti di cantante che di polistrumentista. Dopo una trentina di brani è tempo di tornare a casa, malinconici ma un po’ meno soli.