In occasione del suo ritorno in Italia, il 16 ottobre scorso allo storico Bloom di Mezzago, abbiamo avuto l’occasione per fare nuovamente due chiacchiere con uno dei grandi superstiti di quella Golden Age Of Rock ‘N’ Roll cantata dai suoi Mott The Hoople, che da due anni a questa parte continua a perdere pezzi da novanta. Gente come lui ha la stessa funzione dei pochi partigiani rimasti in vita: quella di ricordarci un periodo che non abbiamo potuto vivere, ma la cui onda lunga è giusto che prosegua anche dopo la scomparsa dei suoi protagonisti. Nel corso di una lunga conversazione, abbiamo parlato con Mr. Hunter dei suoi ultimi progetti, di Mick Ronson e, naturalmente, di David Bowie.
Ian, le canzoni di Finger Crossed potrebbero essere nate in una qualsiasi delle sessioni per i tuoi ultimi quattro o cinque dischi. Hai ormai trovato la formula perfetta?
Non ho mai ragionato in termini di formule, quelle le lascio volentieri ai chimici. Io continuo a lavorare con la passione, che è l’unica cosa da fare per risultare credibili anche quando in pochi credono che tu possa esserlo ancora. Rispetto al mio album precedente, la connessione musicale è evidente, anche se in When I Am President i testi rispecchiavano una certa rabbia legata ad un momento storico davvero difficile, mentre oggi diciamo che ho recuperato un po’ del mio ottimismo. Anche se mi rendo conto che a livello geopolitico faccia tutto schifo come allora.
Qualcuno paragona il tuo finale di carriera a quello di Johnny Cash. Credi che il paragone regga?
Per certi versi sì, anche se in quel caso c’era dietro un progetto ben preciso che, se non avesse funzionato, non sarebbe giunto al sesto o settimo volume. Ho gioito per quell’impennata di popolarità di Cash, perché sostanzialmente era ormai relegato in quel limbo in cui piano piano erano stati buttati tutti i nostri eroi degli anni cinquanta. Quel senso di rivalsa nel vederlo suonare davanti a migliaia di ragazzi mi ha fatto rivivere i tempi in cui, ormai superati i trent’anni, sembrava che il mio destino non dovesse essere questo.
Poi arrivò Bowie…
Esattamente. David Bowie aveva una capacità rara di scrivere brani che, al primo ascolto, diventavano dei classici. Diciamo che ciò avvenne per davvero molti anni. All The Young Dudes, una di quelle grandi composizioni, decise di regalarla a noi, con un gesto che mostrava un altruismo raro in un mondo come quello. Non si trattava di uno scarto recuperato dallo studio o qualcosa del genere, era un brano che sarebbe diventato comunque una hit nella sua discografia, qualcosa che solo un folle avrebbe donato ad un’altra band. Quando decidemmo di scioglierci, Pete (Watts, bassista dei Mott The Hoople) chiese a David se gli servisse un bassista, avendo saputo che stava mettendo su una nuova band. A quel punto, David disse che la nostra storia non poteva concludersi in quel modo. La verità è che aveva amato così tanto la nostra band che voleva sdebitarsi in qualche modo
Ad oggi, credo che Dandy resti l’omaggio più sentito a David. Un instant classic che, se fosse uscito nel 1973 avrebbe fatto sfracelli…
Ma non siamo nel ’73 (ride, ndr). Non intendevo creare qualcosa di nostalgico. Stavo scrivendo un brano inizialmente intitolato Lady, ma non riuscivo a completarlo, non arrivava da nessuna parte. Poi, dopo la sua scomparsa, di colpo si è trasformata in quella che oggi è Dandy. È una riflessione sui suoi anni prima di Ziggy, quelli in cui il suo arrivo creò qualcosa di mai visto in precedenza. Ti parlo del 1971, in Inghilterra ancora si piangevano i Beatles e la fine del flower power. Gli altri ancora seguivano le vecchie regole del blues. Mi ricordo di averlo visto vestito da donna la prima volta e di esserne rimasto shockato. Nessuno e ti garantisco, nessuno, ai tempi poteva permettersi una cosa del genere. Fu come passare dal bianco e nero al technicolor in pochi secondi e rappresentò l’inizio di un’era.”
La sensazione è che la chitarra di Mick Ronson si sarebbe sposata a meraviglia con le sonorità di Finger Crossed. Hai visto il documentario su Mick con la voce narrante di Bowie?
Credo si difficile trovare un album uscito negli ultimi trent’anni che la sua chitarra non avrebbe potuto migliorare in qualche modo. Al di là di questo, l’ho pensato anche io molte volte in studio, senza per questo rendere meno onore ai miei musicisti. Ho visto il documentario e mi ha toccato. Quella di Mick, in fondo, resta una figura molto tragica, cui non è mai stato riconosciuto tutto quello che avrebbe meritato. Sapere che Bowie, che in periodo della sua vita sembrò essersi dimenticato di lui, abbia registrato la voce narrante nelle ultime settimane della sua vita, mi ha davvero commosso.”
Cosa ti manca di più di Ronno?
“Mick è stato probabilmente tra le tre o quattro persone migliori che abbia conosciuto in vita mia, oltre che un musicista dal gusto indescrivibile. Quando lo conobbe, David disse di aver trovato il suo Jeff Beck. Io credo che, pur non avendo la tecnica dei guitar heroes di quella generazione, avesse qualcosa che loro non possedevano: la capacità di capire al primo ascolto quello che avrebbe funzionato e quello che era meglio scartare senza troppi rimpianti. Era un arrangiatore fuori dal comune e molto del lavoro fatto in produzione insieme a Bowie era in realtà lavoro suo. Da anni parlo con amici e addetti ai lavori di quanto sia stato sottovalutato il suo lavoro di produttore e arrangiatore: pensa ad un album come Transformer di Lou Reed, se hai conosciuto Mick e il suo modo di concepire la musica non puoi non capire la sua importanza su quel disco. Così come quella che ebbe su All The Young Dudes, logicamente.”