Ormai il rock vive quasi esclusivamente di anniversari, alcuni trascurabili, altri invece degni di essere celebrati nel migliore dei modi. Iggy Pop non è mai stato un nostalgico, quindi date di questo tipo lo toccano solo in minima parte, ma è giusto ricordare ai posteri quale capolavoro si celi dietro all’album che forse più di ogni altro gli ha dato fama imperitura.
Il 1977 non fu certo un anno avaro di sorprese, né di movimenti sociali che portarono a piccole grandi rivoluzioni di cui ancora oggi avvertiamo l’onda lunga e l’influenza profonda. Mentre Jimmy Carter diventava il nuovo presidente degli Stati Uniti e l’Italia era scossa tanto dal movimento del ’77 che dall’inizio del processo per l’attentato di Piazza Fontana, il Regno Unito subiva lo scossone violentissimo del punk, i cui germi, tuttavia, erano sorti un decennio prima dall’altra parte dell’oceano ed avevano trovato nella Londra di quegli anni l’humus perfetto per diventare virali. Ironia della sorte, il 1977 fu anche l’anno in cui Iggy Pop, proprio l’indiziato speciale di tutti i detrattori del nuovo movimento musicale, in esilio volontario in compagnia di David Bowie, trovò ciò che gli serviva per tornare ad avere una credibilità artistica, oltre che una stabilità umana che si avvicinasse quantomeno alla decenza. I maligni dissero che quello fu l’anno in cui David Bowie diede alle stampe quattro album, puntando il dito sull’influenza totale della sua figura sulla psiche precaria di Iggy e sulla sudditanza psicologica che probabilmente l’ex Stooges viveva in quel periodo nei suoi confronti, ma sarebbe riduttivo (nonché ingiusto) liquidare la questione così semplicemente. La verità, se poi una verità esiste, è che quell’unione di anime per certi versi agli antipodi, ma legate da un sincero affetto e da una riconoscenza reciproca evidente, aiutò entrambi a creare forse gli album più ambiziosi delle loro carriere, di certo quelli più lontani da ciò che avevano composto fino ad allora. Se poi, per quanto riguarda The Idiot, la mano di Bowie fu evidente e astuta, nel caso del successivo Lust For Life le cose andarono decisamente in un altro modo. Dopo l’ascolto di The Idiot, registrato prima ed utilizzato come banco di prova per Low anche se pubblicato successivamente, in molti si chiesero che fine avesse fatto quell’essere autodistruttivo, antisociale e completamente fuori controllo che aveva segnato la provincia americana di fine anni sessanta e che secondo alcuni, ancora aiutato da Bowie, aveva toccato il suo apice con il violentissimo e ultra nichilista Raw Power nel 1973.
Dove era finito l’essere che, tanto per dire, il giovanissimo manager dei Doors Danny Sugerman aveva descritto come un animale cresciuto nel mito assoluto di Jim Morrison, a cui ogni tanto piaceva vestirsi da donna per farsi sollazzare dai marinai in licenza? E il disadattato sociale finito a fare il barbone a Los Angeles prima di essere ricoverato in un ospedale psichiatrico dove, ancora una volta, Bowie era tra i pochissimi ad andarlo a trovare? In effetti, seppur ricco di testi tipicamente iggypoppiani, le sonorità di The Idiot tendevano a distogliere l’attenzione dal resto, ma allo stesso tempo aiutarono Iggy a recuperare un’autostima che pareva scomparsa sotto le macerie dell’autolesionismo e dell’abuso estremo di sé. Quell’autostima, unita ad uno stile di vita leggermente meno disfunzionale, esplose violentemente nell’album successivo. Innanzitutto, questa volta il nome di Iggy comparve tra i produttori dell’album insieme a quello di Bowie, cosa che già indicava una maggior presa di coscienza delle proprie capacità. Inoltre, anche musicalmente, Lust For Life apparve al primo ascolto come un lavoro che in qualche modo prendeva nettamente le distanze dal precedente. Nonostante la mano di Bowie fosse ancora rilevabile (i pezzi sfumati, i cori e la musica della maggior parte dei brani), questa volta l’Iguana parve voler cercare fortemente un’emancipazione dal suo pigmalione, soprattutto perché stanco delle continue insinuazioni che lo volevano come il burattino di David. Dalla fine della prima parte dell’avventura degli Stooges, Iggy aveva subito una sorta di regressione artistica, legata in gran parte alla perdita di fiducia in se stesso e nel mercato discografico, colpevole di aver fatto passare quasi inosservata la violenza e l’importanza di album che, oggi, chiunque definisce assolutamente imprescindibili. Il suo bisogno di avere affianco figure in grado di spronarlo fu comunque sempre evidente: prima i fratelli Ashton, poi James Williamson e in seguito Bowie avevano dimostrato una carenza di personalità difficile da immaginare vedendolo sul palco. “David ha cercato di aiutarlo” – disse a proposito della questione Lou Reed a Lester Bangs – “David ha talento e Iggy è…stupido. È dolcissimo ma è stupidissimo. Se avesse dato retta a me o a David, se ci avesse chiesto consigli qualche volta. Non gli riesce bene neanche di imitare Jim Morrison al suo peggio e già lui non era proprio un granché…”. Ora che quei consigli li aveva cercati, Iggy voleva prendere in mano la propria carriera e ballare il più possibile da solo. Per via dello stesso turbamento che, anni dopo, colpì e distrusse anche Kurt Cobain, il desiderio di produrre finalmente un album di successo si scontrava tuttavia con il terrore che la fama potesse fargli perdere testa e credibilità. A tutti gli effetti, Lust For Life era un disco che avrebbe meritato molto più interesse rispetto a quello che in realtà raccolse. Sarebbe bastato anche solo il testo della title track, così infarcito di immagini crude e drammatiche, per consacrare il disco come uno dei più influenti del decennio ed è triste pensare che un brano di quella portata abbia dovuto aspettare il successo di un film come Trainspotting per diventare un classico. Al di là di quel brano e della celeberrima The Passenger, era tutto l’album a funzionare alla perfezione nel suo alternarsi di sonorità che rappresentavano una sorta di summa ideale di tutti i suoi lavori precedenti. Tonight, ad esempio, riusciva ad essere ironica e tragica allo stesso tempo, con quella storia di un uomo che trova la compagna a letto in overdose e passa la notte a dirgli che tutto sarebbe andato per il meglio. Quello fu anche il primo caso in cui la cover che ne avrebbe fatto anni dopo lo stesso Bowie risultò assolutamente inferiore all’originale, anche per i tagli nel testo effettuati per renderla più vendibile alla massa. Lo stesso si poteva dire per brani come la lasciva Sixteen, Turn Blue (un brano recuperato dalle session infruttuose con Bowie del 1975), ma anche la splendida e dall’incedere quasi dylaniano Neighborhood Threat, senza dubbio uno dei grandi pezzi da rivalutare di un album coraggioso e commerciale nella stessa misura. Ironicamente, Success, il brano scelto dalla coppia per lanciare l’opera, fallì clamorosamente l’ingresso nelle classifiche, aprendo infiniti dibattiti sul motivo dell’esclusione di una canzone perfettamente radiofonica come The Passenger. Un po’ come sarebbe successo con Lodger, che sancì il temporaneo allontanamento tra Bowie e Brian Eno, Lust For Life segnò l’amichevole (fino a che punto?) separazione tra Iggy e David. Una separazione temporanea forse inevitabile e sicuramente sana, che tuttavia non fu sufficiente all’ex Stooges per trovare una stabilità ed uno status che arriveranno solo nella seconda metà degli anni ottanta. Forse per eccesso di romanticismo, ma è bello pensare che quella The Stars (Are Out Tonight), scritta da Bowie per il suo grande ritorno discografico The Next Day, sia stato l’ultimo di una serie infinita di omaggi a colui che più di altri aveva fatto capire al giovane David Jones che cosa avrebbe dovuto fare nella vita. Soprattutto oggi, che dei grandi protagonisti di quella storia l’unico sopravvissuto è proprio quello che tutti davano per spacciato già nel 1969.