Woody Woodmansey è l’unico membro vivente di quel fenomeno mediatico che prese il nome di Spiders From Mars, la fantomatica backin’ band di Ziggy Stardust, alias David Bowie, che per qualche anno mise a ferro e fuoco il Regno Unito. Woodmansey, impegnato ora insieme a Tony Visconti nel progetto Holy Holy, ha scritto una sentita prefazione al libro David Bowie (Hoepli, 2017). Eccola.
Quando lo incontrai la prima volta, David era un artista di grandi speranze e molto talento, ma sostanzialmente ancora alla ricerca di se stesso. Il mio grande amico Mick Ronson aveva appena lasciato i Rats, la band in cui suonavamo insieme, per unirsi proprio alla band di Bowie e Tony Visconti e, di colpo, mi ritrovai senza band, né grandi prospettive future, se non quella di mollare completamente i miei sogni di musicista per andare a lavorare in un’azienda che aveva deciso di investire su di me. Ottimo impiego, una macchina e una casa, ma niente a che a che vedere con il rock n’ roll. La proposta mi venne fatta un venerdì, così mi presi due giorni per decidere e dare loro una risposta il lunedì mattina seguente. Il sabato mi chiamò David dicendomi che mi voleva nella band.
Ricordavo quel nome per via di Space Oddity, passata alla radio durante tutto il periodo in cui l’infatuazione per i viaggi spaziali sembrava essere l’unico argomento da trattare nel mondo, ma onestamente non mi aveva impressionato granché: ai tempi ero molto selettivo e se un brano non presentava una parte di batteria di una certa forza, cambiavo in fretta stazione radiofonica. L’intesa fu immediata e aiutata dalle parole con cui Mick mi aveva presentato al resto della band. Quello della registrazione di The Man Who Sold The World resta uno dei periodi più emozionanti e gratificanti di tutta la mia vita: eravamo tutti entusiasti dell’album e col tempo avrebbe assunto lo status di disco seminale, ma i tempi non erano ancora maturi e, probabilmente, nemmeno noi. Con Hunky Dory mettemmo a punto la formula che ci avrebbe dato la celebrità, soprattutto perché David aveva finalmente compreso dove volesse andare e come farlo. Non smetterò mai di sottolineare l’importanza di Ronson in quel processo: David aveva un talento che non ho mai ritrovato in nessun altro, ma forse senza Mick si sarebbe espresso più tardi o in maniera differente. Poi arrivò Ziggy e tutto diventò mastodontico, senza precedenti, ma anche pericoloso. Ricordo scene deliranti fuori dai concerti, dove più volte rischiammo la nostra stessa incolumità. La gente aveva perso la testa e, rivendendo a posteriori tutti quegli anni, anche noi. Iniziarono gli abusi, le settimane senza dormire e le tensioni, che contribuirono ad alzare continuamente l’asticella. Quando, sul palco dell’Hammersmith, David disse che era finita, persi la testa. Cosa stava dicendo? Era una specie di scherzo? La presi malissimo. Completamente immerso nella faccenda, non potevo capire che David non avrebbe potuto portare avanti tutta quella cosa a lungo, né che, uccidendo Ziggy, stesse semplicemente salvando sé stesso e la sua carriera. Lo compresi solo molto tempo dopo e, in un certo senso, fu liberatorio.
Col tempo, ho fatto pace con me stesso, con quel periodo della mia vita e col fatto di essere l’ultimo Spider From Mars vivente, tanto che negli ultimi anni insieme a Tony Visconti siamo tornati a riproporre quel repertorio con gli Holy Holy e a divertirci come ai vecchi tempi. Per uno strano scherzo del destino, quando David morì mi trovavo proprio in tour con la band, ma Tony fu così fedele al suo amico da non menzionare mai la sua malattia durante quei mesi. Credo che tenersi dentro quel peso fosse qualcosa di devastante, soprattutto perché ogni sera suonava brani che per noi erano una celebrazione, mentre per lui probabilmente si erano trasformati in una specie di tortura. La sera dell’otto gennaio, il giorno del compleanno di David, stavamo suonando proprio nella sua New York e Tony decise di chiamarlo per fargli sentire gli auguri del suo pubblico. David chiese a tutti se avessero apprezzato Blackstar, uscito proprio quel giorno. È bello pensare di aver contribuito all’ultima dimostrazione d’affetto ricevuta in vita da chi lo aveva amato per più di quarant’anni.
Woody Woodmansey