E così, dopo un concerto trionfale con i suoi Soundgarden, Chris Cornell ha deciso di porre fine alla sua vita terrena nello stesso modo, o quasi, di tutti i suoi compagni di avventura di un periodo storico le cui ferite sono ancora lontane dal rimarginarsi.
Potremmo dargli dello stronzo, come ci invitò a fare Courtney Love con suo marito ormai ventitré anni fa, ma dubito che ci aiuterebbe a elaborare il lutto. Potremmo leggere e scrivere di tutto su Facebook, elencare le volte in cui l’abbiamo visto dal vivo, intervistato, incontrato e reso un semplice feticcio, ma sappiamo che si tratterebbe solo di palliativi o dell’ennesimo perverso modo di dire al mondo che esistiamo. Potremmo addirittura rimpiangere il fatto di non averlo mai visto dal vivo (“ah, quella volta avrei dovuto mollare tutto e andare”), anche se possibilità non è che non ce ne abbia date. Io, per esempio, in attesa di tutte le rivalutazioni del disco fatto con Timbaland, mi accontento già leggere sui maggiori quotidiani nazionali che i Mother Love Bone fossero un gruppo grunge. La mancanza di cura è uno dei cancri incurabili del giornalismo moderno. Ma a cosa serve fare polemica oggi? Probabilmente sarebbe solo un altro tentativo patetico di accettazione di qualcosa che, diciamolo subito, la nostra generazione non può in nessun modo accettare. Quelli della mia età si accorsero della potenza di una morte come quella di Kurdt, ma forse non furono in grado di capirne appieno la portata, se non a posteriori. Forse perché da adolescente la morte è più un fatto di stomaco che di testa. Per questo motivo abbiamo pianto per Bowie, Prince e tutti gli altri, ma ogni volta in cui muore uno di loro, uno di quelli che urlava per noi quando noi non eravamo in grado di farlo, uno di quelli che non ci era stato tramandato dai nostri genitori, ma era solo nostro, beh, il dolore è paralizzante. Quella di Bowie, in qualche modo, rappresentava la morte dei genitori, qualcosa di dolorosissimo ma assolutamente naturale, quella di Cornell, invece, è quella di un fratello maggiore che ti diceva che non c’era nulla di sbagliato nello stare male e ti compativa, pativa insieme a te. Per questo non si può accettare. Tuttavia, qualcosa possiamo evitare di farla a prescindere. Per esempio, chiedere perché qualcuno così figo, ricco e famoso abbia deciso di uccidersi; evitare i soliti pipponi sul cattivo esempio dato al mondo, i discorsi sulla scappatoia facile di chi non ha le palle di affrontare la vita e tutta la serie di amenità che intasano i social network, invece dei gabinetti della stazione centrale. La depressione agisce per antonomasia sulla volontà, quindi che cazzo di senso può avere dire che basta tirarsi su le maniche e pensare alle cose belle che hai? È buffo, perché ti ritrovi a cercare un senso a tutto ciò mentre nello stereo gira un album in cui, un po’ retoricamente, Roger Waters ti chiede se sia davvero questa la vita che avresti voluto e, istintivamente, ti viene da pensare che il gesto di Cornell sia la più chiara delle risposte possibili. Un po’ ingenuamente, John Lennon, uno dei grandi (e meno noti) punti di riferimento musicali della scena di Seattle, era convinto che risposta stesse invece nell’amore e che dare una chance alla pace fosse un gesto doveroso. Kurt Cobain, nella sua lettera d’addio, pensò di aggiungervi l’empatia, ovvero la capacità di comprendere appieno lo stato d’animo altrui. Proprio ciò che, altrettanto ingenuamente, eravamo convinti ci legasse a quella scena e ai suoi protagonisti.
L’unica cosa che mi rincuora è che questa volta non diranno che l’ha ucciso la moglie.