Qualche artista non ama festeggiare le ricorrenze, nemmeno le più clamorose. Altri, invece, scelgono di onorarle nel migliore dei modi, il che significa quasi sempre condividere quel traguardo con il proprio pubblico, quello che ha permesso al gruppo di restare sulla cresta dell’onda per tanto tempo. È il caso dei Dream Theater, che hanno deciso di festeggiare i venticinque anni dall’uscita di Images And Words con un lungo tour celebrativo. Ne abbiamo parlato con il grande John Petrucci.
Non è la prima volta che suonate questo storico album dal vivo, ma credo che questa volta vogliate essere al massimo delle vostre capacità, considerato il motivo di questo tour.
“Quando hai nella tua discografia un album significativo per la tua carriera come questo, è impensabile che tu aspetti un anniversario per riproporlo dal vivo, per intero o quasi. È una tentazione che ti assale innumerevoli volte, ma è anche bello che non si finisca per svalutare qualcosa come la riproposizione per intero di esso. Se ogni anni lo eseguissimo nella sua interezza, va da sé che la cosa perderebbe completamente di fascino. Credo che i venticinque anni siano qualcosa di davvero significativo per più motivi: intanto perché ti ricordano che forse hai davvero lasciato un segno in quello che hai fatto e poi perché in qualche modo ti spronano continuamente ad impegnarti nel tuo lavoro. L’errore più grande sarebbe stato quello di sedersi sugli allori, cosa che sicuramente non può esserci contestata.”
Ma davvero per rendervi conto che avete lasciato un segno indelebile nella storia della musica avete bisogno di celebrare il vostro album di maggior successo? Mi riesce difficile crederlo…
“Forse mi sono espresso male prima. Non è che per capire di aver fatto qualcosa di buono devo per forza guardare a quello, ma un anniversario di questo tipo ti mette per forza di cose di fronte al tuo passato e la cosa ti spinge a riflettere su tutto quello che hai fatto. Sai, alcuni per esempio non credono che quello sia il nostro album migliore e pure io, onestamente, mi sento un po’ a disagio con le classifiche. Certo è che, senza quel disco, forse oggi non saremmo qui a parlare di tutto questo, oppure, come mi dicono in tanti, prima o poi sarebbe comunque giunto il disco della svolta. Ecco, quando penso ad Images And Words penso al disco della svolta della nostra carriera, poi lascio alla gente giudicarlo in base ai propri gusti. È chiaro che se un disco che ho composto compie questi anni, la sola cosa davvero certa è che anche io sono invecchiato terribilmente (ride, ndr).”
Onestamente, mentre eravate in studio, vi rendevate conto che i pezzi che stavate registrando fossero così buoni? Al bando la falsa modestia!
“(Ride, ndr) No No, ma quale falsa modestia. Tu devi capire la situazione in cui ci trovavamo all’epoca, però. Noi oggi parliamo con una consapevolezza che ai tempi era davvero impensabile. Oggi, quando si diffondono le voci del nostro ingresso in studio, parte un meccanismo mastodontico che coinvolge decine di persone e che crea inevitabilmente aspettative da parte del pubblico che ci ascolta da anni. Ai tempi, invece, nessuno o quasi aveva idea di chi fossimo, quindi nessuno di noi aveva la benché minima idea di cosa potesse funzionare e cosa no. Inoltre, avevamo appena cambiato cantante, James era appena entrato nella band, cosa che non poteva giocare a nostro favore, anche dal solo punto di vista psicologico. Non che il primo album fosse di poco valore, ci mancherebbe, ma di sicuro eravamo completamente inesperti e non avevamo ancora capito molte cose. Cosa che, comunque, valeva anche per le sessioni che portarono alla nascita di Images. Col senno di poi, forse non era nemmeno un male che avessimo la testa libera da sovrastrutture e preconcetti, che non sono certo alleati della creatività.”
Quindi non vi rendevate minimamente conto di quanto fosse buono il materiale che stavate creando?
“Diciamo che era chiaro che i brani fossero molto buoni, ma onestamente era una sensazione che avevamo avuto anche in passato, forse perché connaturata con l’animo umano: quello che componi è difficile che ti faccia schifo, perché è davvero un prolungamento del tuo animo. Quando però anche all’esterno iniziammo a vedere che le cose funzionavano, allora abbiamo iniziato a convincerci che la strada fosse quella giusta. Il fatto è che solo quando è il pubblico ad amare qualcosa che ti rendi conto di quanto valga e può sembrare banale, ma è davvero l’unico metro di paragone possibile. È chiaro che non è la gente a decidere ciò che è buono e ciò che non lo è, altrimenti la storia del rock non sarebbe piena di capolavori dimenticati o da dischi terribili che hanno venduto milioni di copie, ma se guardi le liste degli album più venduti nei decenni scorsi ti accorgerai che, quasi sempre, grandi vendite corrispondono a grandi album, quindi il gioco regge. O, almeno, ha retto per molto tempo.”
Credi che in un’epoca come quella che viviamo, un album come Images And Words avrebbe lo stesso successo?
“Assolutamente no e per i motivi più svariati. Intanto, molto probabilmente, oggi non ci avrebbero permesso di comporre nuova musica dopo il disco di debutto. Non ti parlo solo dei Dream Theater, potrei tirare fuori decine di pezzi da novanta della musica mondiale e fare lo stesso discorso. Band come i Queen, i Led Zeppelin, gli Ac/Dc, oggi finirebbero dopo il primo disco, senza nemmeno essere riuscite a compiere quella maturazione che le portò a creare capolavori indelebili dell’umanità. Chissà quante band di talento mostruoso sono morte ancora prima di nascere. È troppo semplice dire che non c’è più talento in giro: cazzate. È che in un’epoca in cui tutto deve avvenire e dare frutti subito, è impensabile un progetto che preveda tre o quattro album prima di fare il botto. A noi, se vogliamo, è andata anche bene: non abbiamo dovuto aspettare anni prima di ottenere successo. Pensa però a uno come David Bowie, che prima di diventare una star ci provò per anni e anni.”
Quindi sei convinto che, se negli anni duemila sia stato prodotto un nuovo Images And Words nessuno l’abbia sentito?
“Non è detto, ma è possibilissimo. Va anche detto che esplorare terreni musicali nuovi era molto più semplice allora, perché moltissimo era già stato detto nella storia della musica, ma in un genere come questo avevamo ancora grandissimi margini di espansione e la cosa, inevitabilmente, aiutava non poco la creatività. È anche vero che ogni decennio o epoca storica ha avuto dei protagonisti che sono riusciti ad elevarsi rispetto alla massa, che sono stati in grado di influenzare le generazioni successive e creare generi musicali, mentre pare che quel trend negli anni duemila si sia un po’ interrotto. Ora come ora non vedo qualcuno che possa tracciare una linea guida di un certo spessore e la cosa preoccupante è che sembra non sia una questione di genere musicale, ma bensì generalizzata. Forse è solo questione di tempo o forse è vero che per ogni situazione socio culturale esiste una risposta musicale. Forse questa generazione è ancora meno agevolata di quelle precedenti o forse è abituata ad avere troppo. Ma non sono un sociologo, quindi mi tengo lontano da analisi troppo fantasiose.”
Tornando all’album, capiste subito che James fosse l’uomo giusto per voi? Con che spirito entrò nel gruppo?
“Diciamo che sono sempre stato convinto che nei rapporti, siano essi di qualsiasi tipo, solo il tempo è in grado di dare risposte di questo tipo. Allo stesso tempo, però, credo che alcuni rapporti abbiano qualcosa più di altri. Avrai provato anche tu la sensazione di portare avanti qualche rapporto con un impegno psichico molto alto, quasi come se servissero energie spropositate per farlo andare avanti. A volte ci convinciamo che qualcosa debba andare bene, anche se tutto ci dice il contrario. Allo stesso modo, ci sono persone con cui sembra di aver condiviso cose da sempre. Quando James si presentò, fu subito chiaro che il suo ingresso ci avrebbe dato quello che ci serviva e non ti parlo solo del lato vocale. Ci vollero davvero pochi minuti a capire che si trattasse della persona giusta e i fatti, in questo senso, ci hanno dato di certo ragione. Non ricordo nemmeno bene che brani suonammo insieme all’audizione, forse qualcosa dei Journey. Fu senza dubbio una delle chiavi del successo dell’album.”
Bisogna dire che la ricerca di un nuovo cantante non fu semplice, ma venne ripagata appieno. Pensaste anche di mollare tutto ad un certo punto o non vi scoraggiaste mai?
“In realtà, nulla fu semplice in quel periodo. Avevamo pubblicato When Day And Dream Unite e non eravamo nemmeno partiti in tour o cose di quel tipo. Niente di niente. Giusto qualche recensione sparsa, ma nulla che potesse davvero farci intendere che la strada fosse quella giusta. Chi lo ascoltava sembrava apprezzarlo davvero, ma niente di più. Decidemmo quindi di di cambiare tutto: cantante, casa discografica e addetti stampa. Forse fu un po’ impulsivo, ma ci sembrava davvero che l’unica cosa fosse ripartire completamente da zero, anche solo a livello psicologico. Un anno e mezzo ci abbiamo messo a trovare un cantante che ci soddisfacesse ed è chiaro che, talvolta, lo sconforto avesse la meglio su tutto il resto. Ci rimettemmo a fare lavori di ogni tipo. Nessuno di noi poteva minimamente immaginare che un’etichetta come la Atco, che aveva prodotto molte band con cui eravamo cresciuti, potesse pensare a noi per investire su una giovane band di talento. Era il segnale che cercavamo e la dimostrazione che, a volte, seguire le sensazioni sia l’unica cosa da fare.”
James Contribuì a livello compositivo alla nascita del disco o arrivò nella band che le cose erano già state ultimate?
“In realtà, la composizione del disco era completamente ultimata al suo arrivo. Stavamo scrivendo nuovo materiale da molto tempo e ne avevamo anche registrato molto, eravamo pieni di demo e, in pratica, tutti i brani che poi finirono nell’album erano già stati composti e provati almeno una volta. Certo è che tutti restammo di sasso non appena James provò un paio di quei pezzi: sembrava una cosa completamente folle, quasi esoterica, ma i brani sembravano davvero essere stati scritti per essere cantati da lui. Sconvolgente. L’unione di quelle due cose, il fatto che le canzoni fossero pronte e che non ci fu nulla da cambiare in base al nuovo cantante, ci permise di tagliare un po’ i tempi, visto che avevamo già perso fin troppo tempo nella ricerca di tutto quello che ci sarebbe servito per continuare a sognare di vivere di musica.”
E di Pull Me Under cosa mi dici? Dopo tutto quello che avevate vissuto, non era semplice immaginare di diventare una band da MTV, soprattutto perché quello che suonavate sembrava tutto tranne che votato al successo radiofonico.
“Se, come ti dicevo prima, non era possibile immaginare minimamente il successo di Images And Words, è anche vero che qualsiasi band desideri diventare se non la più grande, almeno una delle più grandi al mondo. Una cosa che però nessuno poteva immaginare era che un nostro brano potesse ottenere quel successo. La struttura dei nostri brani non aveva mai avuto nulla a che vedere con quella classica del pop rock, anche se band come i Metallica, che noi amavamo, avevano dimostrato che tutto poteva accadere da quel punto di vista. Nessuno avrebbe mai pensato che una band di thrash metal potesse dominare le classifiche mondiali di vendita, quindi forse i parametri erano completamente cambiati quando pubblicammo Images And Words, ma resta una cosa davvero difficile da capire che un brano progressive metal di otto minuti potesse diventare una hit. Non fu nemmeno una cosa programmata a tavolino: la casa discografica si accorse che il brano veniva accolto in maniera diversa dagli altri pezzi dal vivo, quindi registrammo al volo un video e tutto ebbe inizio senza che nessuno di noi facesse in tempo ad accorgersene.”
Quanto vi ha condizionato a livello creativo il successo di quell’album? Awake subì il peso del suo predecessore?
“Inevitabilmente, le reazioni a Images And Words e il successo di vendite che ebbe condizionarono la band negli anni successivi, ma non credo in modo negativo. Sicuramente ci fece capire che avremmo potuto fare quello nella vita e ci diede gli stimoli per tornare in studio con sentimenti diversi rispetto al passato. Inoltre, non volevamo fermare la ricerca musicale che ci aveva spinti fino a quel momento, quindi non commettemmo nemmeno l’errore di ripetere una formula che aveva funzionato così bene. Per quanto riguarda Awake, in particolare, avremmo potuto davvero produrre un secondo volume di Images, ma nessuno di noi e, per onestà intellettuale nemmeno la casa discografica, lo voleva. Infatti, non servo né io né un critico musicale per spiegare quanto siano differenti i due album, così come quelli che sono giunti in seguito. È chiaro che puoi trovare un fil rouge tra tutti i nostri album, ma quello è normale e bello.”
Sei ormai uno degli ultimi due membri originali della band, come è cambiato negli anni il tuo ruolo all’interno del gruppo?
“Ne parlavo proprio poco tempo fa con John (Myung, l’altro membro fondatore rimasto ndr), ci siamo fatti più o meno la stessa domanda pensando ai giorni in cui mettevamo insieme la band e sai su cosa conveniamo? Sul fatto che intorno a noi sia cambiato davvero tutto, dai mezzi di trasporto, alle aspettative, ai sogni, ma che io e lui siamo sempre quei due adolescenti che sognavano di suonare davanti a un grande pubblico. Anche il mio ruolo, sostanzialmente, non è cambiato così tanto, ma soprattutto mi sono accorto di una cosa che mi ha un po’ sconvolto, perché non so se sia un bene o un male: la mia tecnica chitarristica è cambiato pochissimo da quando avevo diciassette anni, quasi per niente direi. In pratica è cambiata solo la mia sensibilità musicale, il mio modo di approcciare lo strumento e la composizione, ma le cose che facevo allora sono le stesse di oggi. E delle due, mi sono convinto che spesso less is more anche in un genere come questo.”
Anche i dati di vendita vi hanno dato sostanzialmente ragione. Da Octavarium in poi è come se foste riusciti a recuperare le redini di un discorso che sembrava stesse svanendo. Per alcuni avevate detto ormai tutto.
“Il problema è che probabilmente anche noi avevamo iniziato a pensare di non aver più nulla da dire, o peggio forse avevamo iniziato a pensare di poter scrivere sempre ottimi pezzi, senza doverci preoccupare di nulla. Credo che quel periodo sia il motivo per cui siamo ancora in pista oggi, perché ci fece capire che nulla arriva solo perché ti chiami Dream Theater e sei tecnicamente ineccepibile. Puoi anche suonare pezzi che fanno schifo in modo perfetto, col risultato di annoiare chi ti viene a vedere,anche il fan più devoto o il musicista che viene a vedere come migliorare la propria tecnica. Sono convinto che ad un certo punto la band abbia perso il contatto con la realtà, con le proprie origini e con le motivazioni per cui aveva iniziato a suonare vent’anni prima. Insomma, quelle che c’erano ai tempi di Images And Words. Quelle critiche furono fondamentali, perché capimmo che avevano a che fare con la nostra creatività e non erano frutto di stupide elucubrazioni di certa stampa musicale. Se consideri che A Dramatic Turn Of Events ha venduto sostanzialmente come i due dischi precedenti e più di Octavarium ti accorgi che i fan hanno capito la svolta e che non considerino la band solo come una serie di musicisti immutabili.”
A tal proposito, cosa rispondi a chi sostiene che dopo l’addio di Portnoy i Dream Theater siano un in pratica un nuovo gruppo?
“Rispondo che è puerile dire una cosa del genere: è chiaro che la band oggi non sia più quella degli esordi, così come è chiaro che non lo sarebbe più nemmeno se Mike fosse ancora con noi. Pensa a quanto cambia una persona nel corso di qualche mese e poi pensa a quanto possono cambiare più persone che passano insieme anni di vita. Sono discorsi assurdi, come quelli di chi sostiene che la band attuale non debba essere considerata al pari di quella precedente. Essendo coinvolto, non sono la persona migliore per parlare di cose del genere, ma per quanto ne so non è detto che i cambiamenti debbano portare per forza di cose a peggiorare una situazione. Pensa a LaBrie: non è tra i fondatori della band, ma chiedi a quanti là fuori non pensino immediatamente a lui quando parlano dei Dream Theater? Se invece parliamo di affetto, allora è un altro discorso e capisco perfettamente che per un fan, spesso, i membri di un gruppo diventano una sorta di famiglia, verso cui si proiettano tante cose, sentimenti, umori, quindi è chiaro che l’abbandono di un membro viene visto come un trauma.”
Negli anni lo stesso Portnoy ha dichiarato che non esclude in futuro di riunirsi alla band e che aveva semplicemente bisogno di una pausa per recuperare delle emozioni che pensava di aver perso. Cosa ne pensi?
“Siamo in ottimi rapporti con Mike, credo che tutti i membri della band lo siano e ognuno di noi lo sente con una certa regolarità. Sono contento che le cose gli siano andate bene negli ultimi anni e per me resterà sempre un fratello. In questo mondo non si può mai prevedere come vadano davvero le cose, ma non credo proprio che Mike possa tornare nella band: ha preso una decisione dolorosa, che ai tempi ci ha creato non pochi problemi, ma che alla fine ci ha fatto unire ad un altro grande musicista, dandoci probabilmente gli stimoli che lui stesso cercava andando via. So che nelle interviste continua a parlare di questa cosa, a far risultare un po’ noi come i cattivi, ma credo che dietro ci sia anche un po’ di senso di colpa e di voglia di dire ai fan che in fin dei conti siamo stati noi a spingerlo in quella direzione. Sai, queste genere di cose credo che siano nate insieme alla musica e sono assolutamente comprensibili, anche se forse un po’ fuori tempo massimo. Non abbiamo più vent’anni e non credo valga la pena di dilungarsi troppo su certe cose o di iniziare a dirsi cose indirettamente. Su questo, purtroppo, siamo ancora distanti, ma in ogni caso ne parlerò con lui, come ho sempre fatto.”