In pochi avrebbero creduto che Vasco Rossi sarebbe giunto ad un traguardo come quello dei sessantacinque anni d’età, probabilmente nemmeno lui. Non è semplice aggiungere qualcosa al mare di inchiostro utilizzato per parlare della sua figura, che anno dopo anno ha finito per assumere una dimensione mitologica che mai nessuno prima di lui aveva raggiunto in Italia. Il modo più semplice di fargli gli auguri e di ringraziarlo nuovamente per questi quarant’anni di musica vissuta al massimo mi è sembrato potesse essere quello più classico, una lettera.
Caro Vasco,
Considerato che una lettera scritta ad uno dei propri idoli, già di per sé, rischia di essere infarcita di retorica e banalità, comincerò con l’evitare le classiche frasi di circostanza sull’importanza di un compleanno come quello che ti trovi a vivere oggi e mi concentrerò su altro.
Fa effetto pensare che tra pochi mesi saremo tutti insieme a Modena a celebrare la tua storia, in primis tu, che mai nella tua carriera (se non forse in occasione del primo Heineken Jamming Festival) eri arrivato a pensare di creare un evento ad hoc per mettere un punto sulla tua carriera, per chiudere un cerchio, insomma. Sì perché ogni volta che ti è capitato di farlo, di chiudere un cerchio, poco dopo ci accorgevamo tutti di quanti altri ne avessi aperti in contemporanea, sempre più ambiziosi e sempre più difficili da portare a termine. Perché tu, ormai l’abbiamo capito, non ami le conclusioni delle storie, di cui ancora non capisci le logiche, ma hai sempre amato viverle appieno, senza preoccuparti delle conseguenze. D’altra parte, come ci hai detto in più occasioni, la realtà è sempre stato meglio viverla piuttosto che rimpiangerla. Modena Park mi riporta inevitabilmente alla mia infanzia, quella in cui chiesi a mia mamma un tuo Lp, C’è Chi Dice No nello specifico, e me ne trovai due diversi, Bollicine e Colpa D’Alfredo, che nel 1987 uniti costavano come quello che avevo chiesto. Quel gesto di mia mamma avrebbe cambiato per sempre la mia vita. Erano anni in cui la mia ingenuità mi faceva ancora credere che Bollicine parlasse di Coca Cola, ma l’amarezza e la malinconia che già sentivo pervadere il mio animo erano tutte contenute in quei dischi e, d’un tratto, capii che, se i miei coetanei non erano in grado di comprendere quel lato della mia personalità, nella tua musica avrei potuto trovare condivisione e, perché no, consolazione. Insomma, avevo trovato quel complice che andavo cercando da tanto. Da quel momento, non mi vergogno a dirlo, ho passato più tempo con te che con molti dei miei parenti. Più crescevo, poi, e più riuscivo a comprendere e a riconoscermi nei tuoi testi. La prima possibilità di venire a vederti dal vivo mi capitò presto: avevo poco più di dieci anni e quello show fu una vera e propria epifania.
Da allora, non ho più smesso di seguirti, tanto che l’estate scorsa, facendomi strappare il cinquantesimo biglietto con impresso il tuo nome della mia vita, ho festeggiato idealmente le nostre nozze d’oro. Ed è bello pensare che, chiusa un anno fa quella cifra simbolica, quella di Modena sarà l’inizio di una nuova avventura insieme a te. In venticinque anni ti ho visto cambiare mille volte aspetto, girovita, sonorità e talvolta band, ma mai una volta ho pensato che il tuo animo fosse minimamente mutato rispetto al disperato cui sentivo cantare Fegato Spappolato tanti anni prima. Perché, se è vero che qualche volta hai giocato con il tuo ruolo di rockstar, è anche chiaro che, come tutti i precursori, tu sei arrivato prima alla gente che alla critica, perché la tua poetica è sempre arrivata prima alla pancia di noi che eravamo pronti a comprenderti. Anche chi dice che non scrivi più come una volta non ha capito un cazzo, perché è da minus habentes pretendere gli stessi testi da un uomo di sessantacinque anni e da un ragazzo di venti. Inoltre, mi ci sono impegnato molto, ma non ho ancora trovato nessuno che a sessant’anni sia stato in grado di scrivere un pezzo come I Soliti, così pieno di malinconia, ma allo stesso tempo di gratitudine nei confronti di un’esistenza di cui parevi davvero voler tirare le somme. La verità è che tu appartieni alla categoria di artisti cui hai sempre dichiarato di ispirarti. Tu per noi sei stato un po’ Keith Richards, un po’ Jim Morrison e un po’ Pete Townshend, che a più di settant’anni può ancora suonare My Generation senza sembrare ridicolo. Poi qualcuno che dirà che sei finito, che non ti capirà, che verrà a vederti e ballerà su Siamo Soli come se fosse un brano di Gigi D’agostino ci sarà sempre, ma tu continuerai a fare quello che vuoi. Perché, in fin dei conti, tu sei sei sempre stato libero. E se penso a te, quello è il primo aggettivo a venirmi in mente. Libero di sbagliare, libero di ricominciare.
Auguri amico mio