Era necessario mettere mano alla caotica discografia solista di Pete Townshend per riuscire a recuperare una serie di perle sepolte sotto anni di disinteresse, tour degli Who e profilo non sempre altissimo del leader maximo della band inglese. Sebbene l’ascoltatore medio continui a collegare la band di Tommy ai capelli biondi e al fisico statuario di Roger Daltrey, è noto che la mente (se non malata, quantomeno molto problematica) dietro alla quasi totalità dei brani della band sia sempre stata quella del buon Pete. A discapito di una fisicità spesso esibita in modo spavaldo, infatti, la psiche di Townshend è sempre stata segnata da turbe ingenti, dalle quali però hanno preso vita alcune delle liriche più ispirate e toccanti della storia del rock tutta. Non è un caso che i protagonisti dei grandi concept del gruppo, da ‘Tommy’ a ‘Quadrophenia’, non fossero altro che trasposizioni del nostro in racconti spesso al limite dell’autocommiserazione. Detto ciò, è impossibile pensare che, nel corso della sua carriera extra Who, il musicista abbia sbagliato tutto o non sia mai riuscito ad avvicinare le vette toccate in gruppo. Certo, se solo una manciata di suoi dischi solisti sono arrivati davvero alla massa, o quantomeno ad un elevato numero di persone, vuol dire che anch’egli, come molti suoi colleghi, probabilmente fosse in grado di esprimersi a livelli eccelsi solo quando ogni singolo elemento si trovasse al posto giusto. Tuttavia, poter riascoltare finalmente album che per lungo tempo erano sostanzialmente introvabili, permette al fan curioso di scovare gemme dimenticate o mai giunte davvero alla luce.
Diciamo subito che la maggior parte dei dischi in questione non è di facilissima fruizione, soprattutto quelli in cui la sperimentazione finì per prendere il sopravvento, ma spesso vale davvero la pena di soffrire un po’ per godere di un passaggio strumentale di pregio, di un’intuizione pop di livello o di un verso in grado di commuovere. Poi ci sono gli album imprescindibili, di cui fa sicuramente parte ‘Empty Glass’, secondo full length, ma di fatto debutto solista a tutti gli effetti. Dominato da tematiche autobiografiche, il disco ha pochissimo da invidiare ad alcuni dischi degli Who, tanto che Daltrey per anni è stato convinto che il compagno avesse tenuto per sé alcuni brani che sarebbero stati invece perfetti per la band. Musicalmente parlando, l’album ripercorre idealmente varie fasi del suo stile compositivo, pur mantenendo una coerenza d’insieme difficilmente raggiunta ancora in futuro. Anche a distanza di più di trent’anni, un altro buonissimo prodotto resta ‘White City: A Novel’, ennesimo tentativo di concept incentrato su un uomo (Pete stesso?) che vive in una desolante realtà della periferia londinese, ‘White City’, descritta come una sorta di enorme comprensorio di cemento, che diventa la metafora della totale apatia e perdita di entusiasmo in cui si trovava un’intera generazione di inglesi, ex rocker, ex mod e perfino ex punk, ormai senza più ideali. In parte vittima di alcuni arrangiamenti discutibili, il disco resta una delle vette assolute del Townshend solista.