Pochi personaggi sono riusciti a cadere in modo così fragoroso e a tornare più forti di prima come ha fatto Glenn Hughes. Dato per spacciato infinite volte, l’ex Deep Purple, Black Sabbath e Trapeze torna oggi con un album solista che ne riconferma l’importanza assoluta anche nel panorama musicale odierno. Secondo le sue parole, Resonate è una sorta di summa del suo tortuoso percorso.
Non eravamo più abituati ad avere in mano un tuo album solista. Direi che il tempo, come sempre, pare essersi fermato. Come fai?
“Mi dispiace partire con una domanda a cui non so rispondere nel migliore dei modi. Come faccio? Non lo so. Se guardo dietro di me, al mio passato, vedo così tanti Glenn Hughes che mi riesce persino difficile comprendere quante volte mi sono trovato al punto di dire: o fai questa cosa o non ci sarai più. E non solo da un punto di vista prettamente musicale, ma chiaramente anche da quello della vita stessa. Non mi vanto delle mie avventure al limite o della pericolosità di certi miei comportamenti, ma fanno parte del mio percorso di vita e, come tali, devo tenerli sempre a mente. Allo stesso tempo, non sono diventato una specie di moralizzatore: ognuno deve vivere la propria vita, tanto per quanto gli altri ti possano dare dei consigli, alla fine rimani tu a dover capire cosa fare. Qualcuno, purtroppo, non ha fatto in tempo a capirlo e, in centinaia di occasioni, quel qualcuno avrei potuto essere proprio io.”
A sconvolgere, nemmeno a dirlo, è ancora una volta la tua voce. Nessuno della tua generazione è riuscito a mantenersi in queste condizioni. Esoterismo?
“Forse i mesi nei Black Sabbath mi fecero bene da questo punto di vista (ride, ndr). Sono stato molto fortunato, questa è l’unica risposta che posso darti. Oltre quello che meritavo. Molti dei miei colleghi, che hanno condotto una vita molto più regolare della mia, non sono riusciti a mantenere viva la loro voce allo stesso modo e, qualche volta, mi sento un po’ in colpa per questo. Alla fine, però, vedo questa cosa come un segno del destino: probabilmente sto utilizzando la seconda possibilità che mi è stata data molto meglio della prima e la mia voce è stata l’elemento fondamentale per poterlo fare. Inoltre, da tempo anche io cerco di avere una vita meno movimentata, anche se la quantità di concerti che svolgo mette a dura prova le mie corse vocali. Ad ogni modo, se Ronnie (James Dio, ndr) fosse ancora con noi, non ci sarebbe storia per nessuno, anche tra gente di vent’anni di meno.”
Alcuni album, penso al primo dei Black Country Communion, sembrano nascere da un impulso creativo impellente. Altri, come Resonate, sembrano invece ripercorrere volutamente una carriera. È così?
“In qualche modo credo di sì, anche se in realtà l’impulso di cui parli è il medesimo in entrambi i casi. Nel caso di Resonate diciamo che forse è un po’ più mediato dalla ragione o dalla voglia di cimentarmi in tutti quegli ambiti in cui mi sono mosso in questi quarant’anni. Non è quindi meno immediato, ma semplicemente più vario. Black Country Communion fu un fulmine a ciel sereno, tanto che già negli episodi successivi qualcosa di quel furore era mutato, aveva assunto forme diverse. È il bello e il brutto di progetti che nascono da un momento all’altro e che, inevitabilmente, se proseguono cambiano anche pelle. In questo momento sentivo il bisogno di un album di questo tipo, che mi facesse divertire e, allo stesso tempo, segnasse un po’ il punto di quello che sono oggi.”
E chi è quindi oggi Glenn Hughes?
“Moltissime cose. È un rocker che si avvicina sempre di più ai settant’anni, una persona fortunata e tenace, un miracolato e un entusiasta della vita. Sai com’è, ami ogni cosa per la quale ti sei dato da fare e dove hai messo il cuore, ma amo particolarmente questo disco proprio perché sarebbe la migliore risposta alla domanda che mi hai appena fatto. Resonate è Glenn Hughes e, bada bene, non solo Glenn Hughes oggi, ma nella sua globalità. Qualcuno continua ad ostinarsi a pensare che un’artista della mia età non possa più scrivere nulla di significativo, mentre la mia generazione sta mostrando in maniera lampante un’altra cosa: che le successive, purtroppo, ad un certo punto si sono fermate. Basta guardare una lista qualsiasi di concerti di un paese a caso nel mondo per rendersene conto. Guarda l’eco che ha avuto una manifestazione come il Desert Trip: anni fa avrebbero detto che era un carrozzone di artisti finiti.”
Credo sia la stessa cosa che sta dietro alla rivalutazione di band che, negli anni ottanta, venivano considerati gruppetti per teenager e oggi ricevono onori continui.
“Sì, il discorso è un po’ il medesimo. Diciamo che entrambe le situazioni sono frutto di un costante impoverimento che ha portato la maggior parte degli amanti del rock a guardare solo indietro. È un vero peccato, perché credo che fino a metà anni novanta il processo sia stato sempre l’opposto, tanto che i giovani gruppi vedevano chi li aveva preceduti con un misto di ironia e supponenza. Di per sé, sembrano sentimenti negativi, ma in realtà rappresentavano il normale processo di svecchiamento. Se vai ad analizzare nel profondo il fenomeno ti accorgi che prima si guardava al passato come fonte di ispirazione, ma con l’obiettivo di superare chi ti aveva preceduto. Ora i giovani considerano gruppi come gli Stones inarrivabili e finisce per essere così davvero. Una sorta di profezia che si auto avvera.”
Quindi credi che chi viene rivalutato oggi lo sia proprio in virtù della povertà di cui parli?
“No, credo che il discorso vada proprio invertito. I gruppi che venivano considerati per ragazzini negli anni ottanta erano in realtà grandissime band, con musicisti spesso pazzeschi e che però nel mare magnum e di qualità in cui uscivano, venivano considerati musica di livello minore. E questo valeva sia per il pop che per il rock. Pensa a come venivano considerati gli Europe negli anni novanta: una band hair metal che aveva azzeccato un pezzo che li aveva resi famosi. Invece erano un gruppo pazzesco, che fortunatamente oggi viene riconosciuto come tale. La lista, però, sarebbe infinita. Quello che dubito è che tra vent’anni possa accadere la stessa cosa: chi viene considerato usa e getta oggi, lo sarà anche tra secoli. Non sono mai stato un nostalgico, è solo una triste costatazione.”
Guardando alla tua carriera nel complesso, ti consideri un musicista rock tout court o gongoli maggiormente quando sottolineano la tua anima funky?
“In effetti, la mia storia, unita alle mie frequentazioni musicali, mi fa forse inserire con più coerenza nel grande insieme del rock classico, anche se la presenza di Chad (Smith, batterista dei Red Hot Chili Peppers) in tutte le mie ultime prove soliste ti suggerisce che il funk non mi abbia mai abbandonato nemmeno per un minuto. Forse, col tempo ho capito che il genere che amo maggiormente cantare sia il rock, mentre, se si parla di approccio allo strumento, continuo ad essere un musicista funky. Mi diverte molto di più suonare certe trame, le trovo più stimolanti e soddisfacenti. Ecco, forse è così che mi piace pensare alla cosa. Sono scisso.”
Dal punto di vista della varietà e del ritmo, credo che i Living Colour con cui sei in giro ora siano perfetti!
“Esattamente! Sono proprio una delle band con cui avrei potuto suonare nel corso della mia carriera, perché presentano tutte le caratteristiche che cerco nel sound di un gruppo. Sono sempre stato un loro fan e quasi ogni sera cerco di vedermi almeno una parte del loro show. Vedi, loro sono una di quelle band esplose negli anni ottanta che hanno saputo mantenere una coerenza così elevata che i loro fan non hanno mai perso la stima di loro. Spero sia proprio una delle cose che ci accomuna.”