Quando si parla di leggende della musica come i Black Sabbath, spesso, si abusa di aggettivi mirabolanti per descriverne gli spettacoli. Talvolta perché davvero ancora in grado di fare la differenza nonostante l’età, mentre altre volte semplicemente per non peccare di lesa maestà. Il concerto del 13 giugno all’Arena di Verona è stato proprio uno di quelli in cui diventa davvero difficile trovare le parole adatto a descriverlo. Ci abbiamo provato comunque.
Uno strano clima aleggiava sugli spalti dell’Arena di Verona nelle ore precedenti all’arrivo dei Black Sabbath per il loro ultimo saluto al nostro Paese e non aveva nulla a che vedere con la cappa di umidità che, da lì a poco, si sarebbe trasformata in una fitta pioggia durata circa mezz’ora. L’attesa e il clima di quella che a Bologna, solo pochi anni fa, era stata una grande festa, oggi è inevitabilmente segnata dalla consapevolezza che non ci saranno più occasioni per rivedere Ozzy Osbourne, Geezer Butler e Tony Iommi suonare sullo stesso palco. E solo l’idea, anche a chi scrive, mette i brividi lungo la schiena. Ci provano gli energici Rival Sons a scacciare una malinconia che il tempo passato sugli spalti rischia di trasformare in tristezza e, sostanzialmente, ci riescono anche: il gruppo statunitense ha classe da vendere e, nonostante nessuno dei presenti conosca i brani proposti, si dimostra in grado di coinvolgere tanto gli spalti che la platea dell’Arena. Alle nove in punto, anticipati dalle celebri campane a morto preludio all’esecuzione di Black Sabbath, i quattro fanno il loro trionfale ingresso, accolti da un boato che sovrasta i classici inviti di Ozzy a scatenare l’inferno: a fine serata, i suoi let’s go fuckin’ crazy non si conteranno. Quello dei Sabbath, uno dei gruppi messianici per eccellenza, è un rito che si ripete sempre uguale a stesso, ma che ogni volta è in grado ipnotizzare chiunque si trovi di fronte a loro. Un’analisi superficiale potrebbe far cadere nell’errore di pensare che il cantante sia il perno centrale di tutto il meccanismo, mentre, mai come nel loro caso, è davvero la somma dei carismi dei tre musicisti a creare quell’aura che nessun altro, di nessuna età, è stato in grado di ricreare. Sarà l’unione degli opposti che si percepisce guardando Geezer e Iommi, serissimi sui loro strumenti, mentre un folle al loro fianco si muove in maniera scomposta e incessante, sarà la solennità oscura della maggior parte dei brani proposti questa sera (presi esclusivamente dal loro repertorio anni settanta), o forse la suggestione dettata dal fatto di sapere che tutto ciò non avverrà mai più, ma di certo quello di Verona è uno degli show più intensi passati negli ultimi anni in Italia. Chi aveva pensato che un luogo così non fosse adatto per ospitare un evento di questo tipo, alla fine, ha dovuto ricredersi: se, infatti, l’idea di vedere uno dei gruppi più trasgressivi della storia in un tempio della musica “alta” aveva fatto storcere il naso a molti, i fatti hanno dimostrato totalmente il contrario. Anche la scelta di eliminare completamente i brani tratti da 13, il loro ultimo album da studio, si è dimostrata vincente: in fin dei conti, si trattava di una grande autocelebrazione e l’unico rimpianto, semmai, resta quello di non aver sentito molti più brani presi dal loro periodo storico. Come è accaduto spesso anche in passato, Ozzy parte fortissimo per poi calare leggermente nella parte centrale e ritornare al massimo per l’esecuzione finale di Paranoid: a suo modo, un classico dell’esibizione anche questo. A sconvolgere nuovamente, tuttavia, è la classe mostruosa mostrata dai suoi compagni di viaggio, forse una delle pochissime macchine perfette ancora in circolazione nel circo delle vecchie glorie del rock n roll. Nonostante l’età, gli acciacchi e una fluidità delle dita che non può più essere quella di quarant’anni fa, Tony Iommi conferma nuovamente di essere forse il chitarrista con più gusto apparso nella Swinging London della fine degli anni sessanta. Butler, dal canto suo, è la cosa più lontana da un semplice gregario e il suo basso, ancora in grado di riempire ogni spazio esistente, è ancora lì a dimostrarlo. Al contrario, l’età gioca a favore di Tommy Clufetos, la cui bravura dietro le pelli conferma nuovamente la bontà di una scelta davvero difficile da digerire pensando all’assenza di Bill Ward. Insomma, dopo poco più di un’ora e mezza di emozioni e lacrime e nonostante l’incredulità dei fan, i Sabbath lasciano per l’ultima volta un palco italiano e la sensazione, purtroppo, è che non si tratti di una messinscena. Immortali.