New York Dolls: Intervista Al Mito

Dopo più di trent’anni, portare avanti un discorso che fu seminale ai propri esordi, non deve essere facile. Innanzitutto c’è sicuramente più da perderci che da guadagnarci: non hai certo la fama degli Stones, che ogni volta che si muovono creano denaro, ma nemmeno quella di un Lou Reed, altrettanto seminale con i suoi Velvet Underground, ma di cui ancora si parla come di un semi dio. Hai fatto due album che hanno condizionato gran parte del rock a venire, ma per una serie di sfighe pazzesche, sei finito nel semidimenticatoio. E dire che Malcom Mclaren, prima di manipolare i Sex Pistols, aveva provato a farlo con te, ma anche lì era andata malissimo.

Quando nel 2006 uscì il terzo disco dei New York Dolls qualcuno si mise a ridere: “ma come, un album dopo trent’anni dall’ultimo? E con mezza formazione originale? Sarà una merda”. Invece da qui nasce la seconda vita di un gruppo passato per ogni tipo di vicissitudine e che oggi ha la stessa coerenza di allora, anche se quello che ci circonda è ben diverso. Vedere muoversi sul palco David Johansen ci fa capire da chi abbia preso certe movenze tanto Michael Stipe, quanto Iggy Pop, o perché dai loro due miseri album abbia preso origine un genere intero (o forse più di uno, come dicono in molti). Sylvain che fa piroette dietro di lui non è ridicolo, è semplicemente rimasto quello che era un tempo, non ha perso la sua fanciullezza e la sua voglia di prendere tutto meno seriamente di quello che troppo spesso facciamo. Proprio lui, alla fine di un concerto incredibile al Flog di Firenze, ci racconta di come i Dolls siano sempre legati alla musica da cui partì tutto, a quei tre accordi che portavano la felicità. “Non eravamo famosi allora e non lo siamo oggi, ma siamo sempre stati felici. Abbiamo preso molti, troppi compagni lungo il viaggio, ma non abbiamo intenzione di smettere di fare l’unica cosa che ci riesce.” Gli piace sottolineare che, oggi come allora, il loro destino sia quello di suonare in club da cinquecento persone, di cui a decine saltano sul palco a ballare, proprio come un tempo. “Se non sei genuino, la gente se ne accorge subito. Per quello non baratterei mai la coerenza con nient’altro al mondo.” A dimostrazione del fatto che l’attitudine sia sempre quella (e non un mero recitare una parte), dietro di lui, durante una chiacchierata che pare tra amici, esce uno stremato Johansen, tenuto da entrambi i lati da assistenti perché pare non farcela nemmeno a raggiungere l’auto. “Ogni sera è peggio” – scherza il cantante mentre mangia una banana – “Ma essere ancora in giro è incredibile. In questi club il clima è pazzesco, sembra di essere davvero sulla East Coast nel 1976, solo che ora noi siamo dei vecchi”. Chi in questi anni è passato dal gruppo, vedi Steve Conte o Sam Yaffa, aveva la stessa visione della vita e del proprio mestiere, proprio come Earl Slick, reclutato a gennaio per questo tour e trovatosi a suonare davanti a qualche centinaia di persone, dopo aver riempito per anni gli stadi insieme a David Bowie. Ecco cosa significa essere una bambola di New York.