Un disco dal vivo di una band come gli REO Speedwagon finisce inevitabilmente per trasformarsi in una sorta di greatest hits che ne ripercorre la lunghissima carriera. Per qualcuno, Live At Moondance Jam servirà a scoprire una delle leggende dell’AOR, per altri sarà l’occasione di ritrovare degli amici. Ne abbiamo parlato col cantante Kevin Cronin.
Abbiamo dovuto aspettare un po’ per risentire un album dal vivo della band. Perché credi che questo sia il momento giusto per farlo?
“I motivi sono molteplici, anche se non ti so dire se fosse il momento giusto o no per farlo. Ormai, il mercato discografico è così imprevedibile che le cose che un tempo funzionavano oggi potrebbero essere dei fallimenti, quindi è meglio non fare calcoli. Nonostante la band esista dalla fine degli anni sessanta, credo che non abbia saturato il mercato di album dal vivo, quindi questo può essere uno dei motivi. Poi devo ammettere che in questi ultimi anni la band sta suonando davvero molto bene, bilanciando alla perfezione il materiale più hard degli esordi con quello melodico che ha fatto la nostra fortuna.”
Il successo di un musical diventato film come Rock Of Ages può aver influito sul ritorno di pubblico degli ultimi anni? Si è tornati a parlare molto di un brano come Can’t Fight This Feeling…
“Devo dire che soprattutto in America la band non ha perso lo zoccolo duro del proprio pubblico, anche perché si presta meglio alla nostra musica rispetto all’Europa. Nonostante abbia sposato un’italiana, spesso mi è mancato un rapporto più profondo con il vecchio continente, anche se mi rendo conto che sia soprattutto una questione culturale. Detto questo, è stato molto bello vedere che molti ragazzi hanno scoperto la nostra musica grazie ad operazioni come quella di Rock Of Ages, che per altro ho apprezzato davvero molto. Ho amato soprattutto la scena in cui compare Can’t Fight This Feeling, dove Alec Baldwin e Russell Brand hanno il coraggio di mostrare il proprio amore uno all’altro (ride, ndr)”.
La vostra attività live non ha mai visto cedimenti, tanto che negli ultimi decenni avete dedicato molto più tempo ai concerti piuttosto che allo studio. Avevate già intuito che fosse quello il futuro del music business?
“Forse andrò controcorrente, ma ti dirò che sono convinto che la musica dal vivo sia sempre stato il motore di tutto il business che gira intorno alla musica. Oggi si continua a dire che l’unico modo di fare soldi sia quello di suonare dal vivo, ma anche trent’anni fa se non eri in grado di suonare su un palco la gente, col tempo, smetteva di comprare i tuoi dischi. Suonare dal vivo vuol dire far vedere di essere ancora vivi e oggi, forse questo sì più di un tempo, magari fa comprare i tuoi dischi al pubblico. Insomma, credo che suonare dal vivo sia sempre stata la chiave di volta di tutto.”
Sta di fatto che un tempo una band come i Beatles poteva decidere di non fare più concerti e dedicarsi solo alla sperimentazione in studio. Oggi non sarebbe più possibile.
“È vero, ma oggi non potrebbe più nemmeno esserci una band come quella dei Beatles. Non perché non ci siano band di talento, ma perché oggi le band che incidono album devono ottenere successo immediato o non avranno alcuna possibilità di maturare e diventare grandi. Abbiamo ancora voglia di confrontarci con nuova musica, infatti non abbiamo mai smesso di scrivere musica, ma dobbiamo fare i conti con la realtà: oggi incidere un album in genere costa molto di più di quello che fa guadagnare. Quindi meglio aspettare qualche anno e creare qualcosa che in primis soddisfi noi e sia in target con la nostra storia. Sarebbe inutile farlo per altri motivi.”
Hai detto che non avete mai smesso di comporre nuova musica. Come nasce oggi una tua canzone?
“Più o meno come trent’anni fa, anche se oggi ho una consapevolezza migliore di quello che sto facendo e di dove voglio arrivare con le mie parole. Pur amando suonare dal vivo, ho sempre trovato divertente l’atmosfera che si crea in studio, oltre all’emozione di veder trasformarsi le mie piccole canzoni folk in canzoni degli REO Speedwagon. La cosa buffa è che quando porti in giro dei brani appena composti, ti trovi di fronte a migliaia di persone che conoscono le canzoni meglio di quanto tu le conosca, perché in pratica dal vivo non le hai mai suonate (ride, ndr)! Mi hai fatto tornare voglia di registrare un nuovo disco, cancella tutto quello che ti ho detto fino ad ora!”
Ce n’è voluto di tempo per vedere pubblicata dal vivo In Your Letter. Perché solo ora?
“Non abbiamo molti brani come in In Your Letter all’interno del nostro repertorio, quindi non è mai stato facile inserirla nelle setlist. È un brano che abbiamo sempre amato molto e questa volta, visto che volevamo in qualche modo celebrare Hi Infidelity, siamo riusciti finalmente ad introdurla.”
Quel disco fu il più venduto del 1981 e la vera svolta della vostra carriera. Credi che in qualche modo vi abbia anche un po’ penalizzato negli anni successivi? Si sopravvive ad un successo di quelle dimensioni?
“Si sopravvive e anche molto bene dopo un disco di quel tipo (ride, ndr). A parte gli scherzi, non posso che trovare solo elementi positivi legati a Hi Infidelity, anche perché chiunque faccia musica ha come obiettivo che questa raggiunga il maggior numero di persone possibili. Certo, vendere più di dieci milioni di dischi dopo non aver raggiunto quelle cifre sommando tutti i dischi precedenti è una botta che può distruggerti e che in qualche modo ti porti dietro per anni. Le pressioni cambiano, così come la leggerezza con cui magari affrontavi prima la scrittura dei pezzi e in qualche modo, come è successo a molti, la tua vita artistica cambia per sempre.”
Cosa ricordi maggiormente di quei cinque anni che cambiarono per sempre le vostre vite?
“I ricordi sono troppi e parlarne spesso mi fa sprofondare nella nostalgia. Per questo preferisco sempre guardare avanti piuttosto che al passato, perché non voglio sentirmi un vecchio ricordo. In ogni caso, tra le cose che ricordo c’è sicuramente la prima sera in cui suonammo al Madison Square Garden: fin da piccolo dicevo ai miei genitori che un giorno avrei suonato lì, anche quando non sapevo nemmeno cosa fosse! Il giorno in cui seppi che ci avrei suonato davvero chiamai in lacrime mia mamma e le comprai subito un biglietto aereo per New York. Un’altra esperienza che ricordo sempre con affetto resta quella del Live Aid, quando forse con un po’ di ingenuità si pensava che la musica potesse cambiare il mondo.”
E dire che la vostra musica è sempre stata considerata puro intrattenimento, senza alcun altro fine…
“Be’ ma in quell’occasione non contavano i messaggi delle tue canzoni, ma il fatto che tu fossi conosciuto da milioni di persone che potevano così partecipare a quella grandissima operazione. Non dico che i messaggi in musica non servissero, ma se pensi a chi ha suonato quel giorno non possiamo dire che fossero tutte band impegnate. La cosa importante era che più gente possibile vedesse quell’evento e donasse soldi per la causa e questo fa capire che qualsiasi canzone può essere un veicolo per qualcosa di più grande delle parole stesse del brano. È stupido parlare in modo dispregiativo di intrattenimento, nel senso che ogni forma d’arte in qualche modo lo è. Credo ci siano momenti per ascoltare Bob Dylan ed altri per i REO Speedwagon.”