Dopo anni di pettegolezzi, sfociati spesso in morbosità, di immagini rubate e di operazioni discografiche di dubbio gusto, Franco Battiato ha lasciato il mondo materiale. Aveva compiuto da poco settantasei anni, ma forse senza nemmeno rendersene conto. I suoi ultimi tragici anni, segnati da una malattia neurodegenerativa, erano sembrati quasi un insulto per uno degli ultimi veri uomini di cultura di un Paese ormai allo sbando.
Oggi che possiamo analizzarne la carriera decontestualizzandone le opere, Franco Battiato appare davvero come un metro di paragone imprescindibile in termini di ricerca sonora e dell’utilizzo della parola: talmente colto da sembrare quasi snob, in grado di passare dalla forma canzone canonica alla sperimentazione assoluta per poi riuscire infine a fonderle magnificamente, il cantautore siciliano ha saputo percorrere (e precorrere) le strade del pop radiofonico con lavori culturalmente dieci spanne sopra i propri colleghi contemporanei. Il tutto, riuscendo nell’obiettivo degli obiettivi di ogni cantautore: vendere milioni di dischi senza perdere un briciolo di credibilità artistica. Uno capace di sembrare sé stesso perfino cantando in playback al Festivalbar.
Quella capacità di fondere lingue e linguaggi, dando vita a una cifra stilistica inimitabile e inclassificabile in perenne bilico tra ermetismo, esoterismo e autobiografia, eppur perfettamente ancorata alla realtà e al suo tempo, è qualcosa che troverà uno dei suoi apici assoluti ne L’era del cinghiale bianco, uscito nel settembre del 1979. Nei suoi testi continuamente sospesi tra terra e cielo si trova il linguaggio che caratterizzerà ogni opera successiva del Maestro.
Simbologia, racconto, psicanalisi, paradosso si mescolano in uno dei più raffinati esempi di scrittura non solo italiana: capace di colpire a fondo senza cedere ai trucchetti del romanticismo; aerea anche quando fa satira del materialismo, come in quella Magic Shop in cui parlava di cori nelle messe e Amanda Lear. Se vogliamo indagare la capacità di Battiato di criticare senza sconti ma senza nemmeno gettarsi nel fango, pungendo con ironia ma senza risparmiare i colpi, è bene partire da qui. Battiato è stato capace di finissime invettive, di j’accuse forse non diretti come quelli di Fabrizio De André, ma altrettanto caustici e ricchi di poesia: a differenza di Faber, però, le sonorità scelte dal catanese per le sue canzoni di protesta sono sempre state innovative, mai convenzionali. Mentre portava nel mainstream figure, suoni e nomi mai uditi prima dal grande pubblico, Battiato semplicemente stava allargando l’orizzonte del popolare: un canone del resto mai rifiutato, come dimostrano in modo più che palese le sue raccolte Fleurs, dove la musica leggera è elevata non perché ritenuta di lega inferiore, ma proprio per le sue proprietà magiche intrinseche. Questo percorso non è mai venuto meno e si può dire sia culminato con Gommalacca, vero e proprio capolavoro della tarda maturità, in grado di riportarlo a un’attualità e a un pubblico che pareva ormai un po’ perso. Mentre le nuove generazioni lo riscoprivano, quasi ogni gruppo nato negli anni ’90 lo citava come mentore assoluto, ne perpetuava la fama, lo ricercava magari per collaborazioni o riprendeva il suo repertorio: così, tra le parole di Morgan o dei Subsonica, tra una cover e un omaggio, un grandissimo autore è diventato mito.
Allo stesso tempo, però, Battiato era stato capace di segnare una svolta non meno significativa all’interno del cosiddetto cantautorato di sinistra che aveva segnato i nostri anni ’70. Se, infatti, la sua produzione non può essere certo catalogata come ideologica, le sue critiche sprezzanti nei confronti dei vizi della società e dei costumi devono considerarsi politiche, nel senso più alto e ampio del termine: l’intervento dell’artista nella polis, altro che genio isolato dal mondo! Col tempo, quell’aspetto della sua scrittura si fece a sprazzi più esplicito: brani come Povera Patria o Inneres Auge mostrarono la sua capacità di fotografare in modo iconico un Paese perennemente allosbando, privo di valori e di quel senso del Bello a lui tanto caro. Le recenti e continue vicende di una politica composta da molti mestieranti confermano ancora una volta la sua capacità profetica. Perché Battiato non si è limitato a dipingere vignette del suo tempo, come un giornalista. Semmai ha cercato di mostrarci la straordinaria somiglianza tra l’Italia e il Dorian Gray di Oscar Wilde: immutato e immutabile a scapito dei propri cittadini, sempre più stanchi e senza forze, una statua lucida che nascondo il marcio al proprio interno.
Quando nel 2003 Battiato scelse di fissare la data milanese del suo tour presso la festa di Alleanza Nazionale, non tutti la presero bene. Ai quei tempi, infatti, Fini e compagni non erano certo i moderati liberali che avrebbero cercato di apparire in seguito, ma ancora un’accozzaglia di ex fascisticonvinti che Mussolini fosse il più grande statista di sempre e che spesso venivano pizzicati a salutarsi col braccio teso. Ai fan e all’intellighenzia che si chiedevano come avesse potuto pensare di partecipare a una manifestazione del genere un uomo che aveva esplicitamente accusato i populismi, gli sciovinismi, i militarismi, Battiato rispose smascherandone le falle. Se era costretto ad assistere allo sgretolamento dello schieramento che diceva di incarnare i valori di sinistra, allora lui avrebbe potuto tranquillamente suonare per Rauti e La Russa:«La mia musica prescinde dal tempo, dallo spazio e dai luoghi in cui viene proposta. Non è mio uso chiedere la tessera a chi mi viene a vedere». Molti capirono, altri non lo perdonarono mai. Di sicuro non i piani alti di AN, che sperando di aver cooptato tra le loro file un mito del pop provarono a salire sul palco con le bandiere: peccato per loro, il Maestro si guardò bene dal mischiarsi a quella marmaglia, proprio perché il suo non era un gioco delle parti. Il suo discorso è sempre stato più alto, e non per questo disumano o qualunquista. Anzi, magari quella sera, grazie a una sonata di Corelli, qualcuno riscoprì la bellezza del creato.