“Quando mi drogo vedo Dio, tutta la natura è opera di Dio, quindi anche la droga” (Patti Smith)
Patricia Lee Smith nasce a Chicago il 30 dicembre del 1946. Sua madre Beverly aveva cantato jazz per molti anni, prima di diventare cameriera: un lavoro meno affascinante del precedente ma che le permetteva guadagni maggiori e, soprattutto, sicuri. Il padre Grant, invece, lavorava alla Honeywell, una grande multinazionale della città. All’età di quattro anni, Patti e la sua famiglia si trasferiscono a Germantown, un’area nella parte nord ovest di Philadelphia. La piccola Patricia ancora non poteva saperlo, ma quella parte di città, rimasta indipendente fino al 1854, nel 1688 era stata protagonista della prima protesta ufficiale a favore dell’abolizione della schiavitù e contro ogni tipo di discriminazione razziale, religiosa o culturale. Tematiche che avrebbero ricoperto un ruolo fondamentale nella futura poetica di Patti. Sono anni di traslochi continui per la famiglia Smith, costretta a muoversi lungo grandi tratti della East Coast per via della ricerca costante di lavoro da parte di Grant. Dopo essere stati per qualche tempo a Pitman, la famiglia trova infine dimora stabile a Deptford Township, anonima cittadina del New Jersey dove Patti inizia a frequentare la scuola locale. È in questi anni che la bambina entra in contatto per la prima volta con la musica di Bob Dylan, l’artista che più di chiunque altro ne segnerà l’esistenza. È la madre a regalarle Another Side Of Bob Dylan, l’album del 1964 che grazie a brani come To Ramona, My Back Pages e It Ain’t Me Babe sarà in grado di confermare al mondo il suo talento di poeta. Ed è infatti la poesia, prima ancora che le note che la accompagnano, a colpire l’adolescente che già da tempo divorava i testi dei poeti maledetti francesi e degli autori della beat generation e che ritrova nelle parole di Dylan un unico filo conduttore. La sua famiglia, tuttavia, non faceva altro che ricordarle che la vita fosse ben altro, che servivano soldi per riuscire ad arrivare a fine mese e che l’arte poteva dare un po’ di sollievo, ma era una cosa per pochi fortunati. Patti concluse le scuole superiori e trovò lavoro in una fabbrica della zona, senza riuscire tuttavia ad integrarsi con la mentalità del luogo. Ha delle amicizie, ma tutti rapporti superficiali, come quello con il ragazzo da cui, il 26 aprile del 1967, nasce una bimba. Quando Patti confida ai genitori di essere rimasta incinta, questi reagiscono nel peggiore dei modi, segregandola in casa per tutto l’arco della gravidanza. Il problema del lavoro, d’altra parte, era già stato risolto da tempo: frustrata e avvilita dalle regole della fabbrica, Patti aveva rassegnato le dimissioni come primo gesto liberatorio nei confronti di una vita che non sentiva appartenerle in nessun modo. L’unico conforto restava le parole dei suoi mentori, in primis quelle di Arthur Rimbaud: “Avevo trovato conforto in Rimbaud, in cui mi ero imbattuta a sedici anni, su una bancarella di libri di fronte alla stazione degli autobus di Philadelphia; il suo sguardo borioso aveva incrociato il mio dalla copertina. Possedeva un’intelligenza insolente capace di infiammarmi, e l’avevo accolto come un compatriota, un parente, un amore segreto perfino. Non avendo i novantanove centesimi per comprare il libro me lo ero messo in tasca”. Negli stessi anni, Patti si invaghisce della musica dei Doors e delle parole di Jim Morrison. Fu subito dopo la sua morte, come mi disse in un’intervista del 2012, che decise che uno dei suoi obiettivi sarebbe stato quello di portare a termine la sua opera. Se Morrison era morto senza riuscire a far comprendere quanta poesia poteva esserci nel rock ‘n’ roll e quanto rock ‘n’ roll nella poesia, ci avrebbe pensato lei. Patti sentiva di possedere dentro di sé la stessa arte di cui erano dotati i propri numi tutelari, ma era convinta che vivere a Deptford Township, con gli anni, le avrebbe fatto morire dentro il fuoco che sentiva di avere. “Tutti i posti che frequentato fino alla prima età adulta erano avvilenti. Non che fossero brutti e a molte persone probabilmente serviva quel tipo di realtà. Ma non a me. Io non potevo pensare che ogni giorno fosse uguale al precedente fino alla fine dei miei giorni. Non c’era possibilità di crescita. Era assolutamente impossibile trovare stimoli di alcun genere. Nessuno ti dava fastidio o ti rapinava, ma non trovavi nemmeno un ragazzo della tua età che ti desse una pacca sul sedere”. Per questo, nel 1967, Patti decise di lasciare la propria famiglia, un atto mutuato dalla generazione hippie, in cui Patti ritrovava molto della propria idea di libertà. Se detestava tutto di Deptford Township, era anche vero che da lì raggiungere New York non sarebbe stato un viaggio impossibile, persino per una come lei che non possedeva 99 centesimi per un libro di poesie. “Nessuno mi stava aspettando. Ma mi aspettava ogni cosa”. Lo sbarco a Manhattan fu una folgorazione. “Sentivo di essermi trasformata, toccata dalla rivelazione che l’arte è creata dagli esseri umani, che essere un’artista voleva dire vedere ciò che gli altri non potevano vedere. Non avevo prove di possedere la stoffa dell’artista, ma bramavo esserlo con tutta me stessa. Mi domandai se meritavo davvero di essere un’artista; non mi preoccupavo delle sofferenze che una vocazione avrebbe comportato, ma avevo il terrore di non ricevere la chiamata”. Qui incontra Robert Mapplethorpe, fotografo di talento che contribuisce enormemente a tirare fuori quello che Patti sente di possedere. Omosessuale, gli anni in cui incontra Patti sono quelli in cui Robert ostenta un machismo di maniera nel tentativo di rifiutare le sue vere inclinazioni. Sono anni particolari per gli Stati Uniti: il vietnam, le rivolte studentesche, i movimenti di liberazione delle donne e degli omosessuali stanno cambiando rapidamente la società e i due vi si ritrovano alla perfezione. Sono anche gli anni delle droghe, che i due sperimentano insieme nell’appartamento di Hall Street dove decidono di andare a convivere. Proprio come lei, Robert “si sentiva nato per fare l’artista. Per poter scegliere questa via e dedicare la sua vita all’arte si è trovato a fare cose molto difficili, coraggiose. L’ho incontrato proprio in quel momento, a vent’anni, quando sentiva che quello era il suo destino”. Una convivenza interrotta sola dalla decisione di Patti di trasferirsi momentaneamente a Parigi insieme a sua sorella per vivere in prima persona i luoghi dei poeti a cui era più legata. È qui che inizia ad esibirsi nei primi reading, oltre che dare vita a vere e proprie performance nelle strade o nei piccoli locali che hanno il coraggio di ospitarla. Sarà la consapevolezza acquisita a Parigi a darle la spinta finale: una volta tornata a New York e trovato un tetto al celebre Chelsea Hotel, lei e Mapplethorpe iniziano a frequentare il Max’s Kansas City e il CBGB e a sperimentare l’arte in tutte le sue sfaccettature: dagli spoken word, alla pittura, passando per la fotografia e le rappresentazioni teatrali. Terminata la relazione con Mapplethorpe, che comunque rimarrà per sempre “l’artista della sua vita”, Patti ha una relazione con l’attore e drammaturgo Sam Shepard insieme al quale scriverà delle sceneggiature e per il quale scriverà diverse poesie. Nel 1971, Shepard le farà un regalo altrettanto importante: una vecchia Gibson del 1931, che Patti chiamerà Bo. Subito dopo, Patti compra un libro di spartiti di Dylan e impara la manciata di brani in grado di suonare con i pochi accordi che conosceva. Se fino ad allora la musica era stata solo una parte delle sue esplorazioni artistiche, ora i tempi sono maturi per il salto definitivo. Non sapendo accordarla, Patti ferma tutti i musicisti che incontra per la sua via, chiedendo loro se volessero vedere una bella chitarra. A quel punto, incuriositi dallo strumento, questi chiedevano a Patti di poterla provare, trovandosi costretti ad accordarla. Nel 1975, anche se ormai in grado di accordarla, Patti utilizzò lo stesso trucco per far accordare lo strumento proprio a Bob Dylan. La leggenda vuole che con lo stesso stratagemma l’avesse messa in contatto con Lenny Kaye, col quale nel 1974 Patti usava esibirsi per i locali di New York e che sarebbe stato il suo compagno di viaggio più fidato e duraturo. A loro si unirono a breve Ivan Kral alla chitarra e al basso, Jay Dee Daugherty alla batteria e Richard Sohl al piano, che diventeranno celebri come Patti Smith Group. La band debutta con il singolo Hey Joe/Piss Factory, che metteva ben in luce già le varie anime della Smith: da una parte la rivisitazione di un classico reso da poco immortale da Jimi Hendrix e dall’altro un pezzo proto punk che le garantirà l’appellativo futuro di punk poet laureate. Colpito dalla carica della band, pochi mesi dopo Clive Davis decide di metterla sotto contratto per la propria Arista Records. L’album che ne nacque, Horses, rappresentava appieno tutte le sfaccettature, gli amori, le contraddizioni e la voglia di farcela che Patti aveva mostrato dall’arrivo a New York di otto anni prima. A partire dalla copertina scattata da Mapplethorpe, fino ai contenuti che univano religiosità e sfoghi anticlericali, sonorità e attitudine punk, ma con un’anima profondamente hippie, sensualità e androginia, poesia e violenza, Horses riuscì in poco meno di tre quarti d’ora ad essere una sorta di calderone in cui l’arte trovava spazio in ogni sua forma. Patti era riuscita a inserire ogni sua influenza e ogni figura di rottura che le aveva dato la forza di fare ciò in cui credeva: da Ginsberg a Rimbaud, da Burroughs a Jim Morrison, passando per Bob Dylan e i Rolling Stones. Allo stesso tempo, l’album era un grido di gioia, quasi come se Patti stesse urlando al mondo: “Ehi, sono qui: spesso non ho avuto da mangiare appena arrivata in città e nessuno forse avrebbe scommesso su di me, ma ho vinto io. Che vi piaccia o no!”