«Durante i fine settimana, le più belle feste di Los Angeles si facevano da noi. Nella nostra casa a Gardener Street si poteva fare di tutto:scopare, suonare, drogarsi, ubriacarsi, litigare…Quando arrivava la polizia, praticamente tutte le sere, capitava spesso che trascinassero qualcuno nudo e rovinato afferrandolo per i capelli: era il posto più sfrenato, libero e pazzo del mondo. Era la casa dei Guns n’ Roses»
In un’epoca come questa, in cui il destino del rock sembra in mano ad abili mestieranti come i Muse o ad altrettanto abili copie carbone come i Greta Van Fleet, ricordare l’uscita di un album come Appetite For Destruction è qualcosa che fa bene al cuore. Intendiamoci, non che i Guns N’ Roses si presentassero al mondo con qualcosa di mai sentito, ma, a differenza di tanti campioni d’incassi moderni, lo fecero con brutale onestà e con un’attitudine capace di riportare in auge il classico motto sex, drugs and rock ‘n’ roll senza sembrare un mero prodotto creato a tavolino. D’altra parte, che il gruppo di Axl e soci fosse destinato a qualcosa di grande lo si era già capito nel maggio dell’anno precedente, quando la ferocia e la spontaneità dell’Ep Live ?!*@ Like a Suicide aveva convinto David Geffen a mettere sul piatto la bellezza di 75000 dollari per accaparrarsi quei cinque scappati di casa che stavano mettendo a ferro e fuoco il Sunset Strip e che, da lì a breve, non se la sarebbero giocata più con i compaesani glamster Mötley Crüe, ma con il gotha della musica mondiale. Capaci di dividere il pubblico fin dagli inizi come solo i più grandi, con il loro album di debutto i Guns N’ Roses riuscirono nell’impresa di ridare credibilità ad un genere, il rock ‘n’ roll (o hard ‘n’ roll, se proprio vogliamo), che sembrava ormai qualcosa di sorpassato e in mano ad un pugno di reduci come Rolling Stones, Who e Aerosmith. Il tutto fondendo l’anima melodica e bipolare di un cantante che si rifaceva a gente come Elton John e Queen e quella tipicamente blues di Slash e Izzy Stradlin, con l’aggiunta di un punk addicted come Duff McKeagan a rendere tutto dannatamente conforme ai dettami del do it yourself. Niente di nuovo, per l’appunto, ma nemmeno qualcosa di così distante dalle sonorità che avrebbero caratterizzato tutta l’ondata grunge che, pochi anni dopo Appetite For Destruction, avrebbe monopolizzato il mercato mondiale dei dischi. La stessa coppia Rose Slash aveva radici ben piantate nel passato, tanto da apparire immediatamente ai più come una riedizione (per certi versi ancora più più selvaggia e nichilista) dei vari Page e Plant, Jagger e Richards e, soprattutto, Tyler e Perry, forse l’esempio più calzante di gemelli tossici cui i due guardarono sempre con devozione quasi religiosa. Gente che per lungo tempo aveva fatto del proprio stile di vita disfunzionale un vero e proprio punto di forza, mettendo in musica esperienze ed eccessi che si trovavano a vivere costantemente. Non è un caso che la stessa band di Welcome To The Jungle, a chi chiedeva come nascessero le sue canzoni, rispondesse sbruffona e autocompiaciuta: «La nostra musica è come un ritratto delle nostre vite…Nelle canzoni raccontiamo ciò che ci succede». Che poi sarebbe sbagliato ridurre tutto ad una semplice questione di attitudine, visto che la forza di Appetite For Destruction stava (e sta tutt’ora) soprattutto nella forza di quei dodici brani che, a distanza di trentadue anni, non hanno perso un grammo della loro potenza, della loro ammaliante e allo stesso tempo brutale carica melodica. Perché anche a Hendrix, per passare alla storia, non sarebbe bastato essere il più innovativo chitarrista di sempre se non avesse saputo scrivere anche grandi pezzi. Nel giro di qualche mese, le cose si fecero maledettamente grandi: i cinque passarono dai club agli stadi, dalle camere condivise agli hotel di lusso, dal Night Train in cartone allo Champagne. Come nelle peggiori favole rock, arrivarono quindi le ambizioni senza limiti, i milioni di dollari e i primi conti da pagare di una vita che, proprio come per i loro numi tutelari, non poteva che portare a conseguenze nefaste. Ma se pensate che quelli dei due Use Your Illusion non fossero più gli stessi Guns N’ Roses degli esordi commettereste un grave errore, visto che alcuni dei pezzi più noti di quegli album derivavano proprio dalle session di Appetite. E anche oggi, quando magari deridete Axl per le dimensioni del suo girovita, portando proprio ad esempio splendidi settantenni come Mick Jagger e Steven Tyler, o per la telenovela di Chinese Democracy (che per altro resta l’album rock più sottovalutato degli anni zero insieme a Lulu di Lou Reed e Metallica), non dimenticate che se avete amato il circo del rock ‘n’ roll è anche per gente come lui, che, al di là della metamorfosi fisica, resta un punto di riferimento per chiunque decida di mettere in piedi una band e che nella seconda metà degli anni ottanta fu capace di riportare in vita un ruolo, quello della rockstar tout court, riconducendo tutto alla strada, in un periodo storico in cui la musica sembrava non poter prescindere da sintetizzatori e batterie elettroniche. Vi viene in mente qualcosa di più fottutamente rock ‘n’ roll? A me, francamente, no.