Le persone non sono mai contente. Dico questo leggendo qua e là i commenti online all’ultimo biopic musicale The Dirt, tratto dall’omonimo libro che racconta l’avventura dei Mötley Crüe e tutte le scorribande che li hanno visti protagonisti dalla nascita nel 1981 a Los Angeles, fino all’ultimo tour del 2015. Il successo del fortunato, quanto mai atteso, film sulla vita dei Queen, in questo senso, ha aperto una sorta di vaso di Pandora: dopo l’uscita nelle sale di Boh Rhap, infatti, un’orda di nuovi fedelissimi fan, unita a centinaia di spietati accusatori, attenti a bollare ogni scena romanzata, hanno riempito il web di sterili recriminazioni, bazzecole, inutili chiacchiere. Come sappiamo, il film ha letteralmente stravinto: sia negli ambienti di Hollywood, portandosi a casa ben quattro statuette, sia tra la gente comune, che ha riempito le sale fino all’ultima proiezione prima del ritiro dai cinema. Venerdì 22 marzo, su Netflix, è dunque sbarcato The Dirt e la prima impressione è che gli autori non si siano davvero risparmiati su nulla. Volevate una trasposizione letterale del libro? Con tanto di leccata di urina da parte di un Ozzy Osbourne strafatto? C’è. Volevate i quattro musicisti seduti a un tavolo, mentre una delle groupie di turno se li lavora sottobanco? C’è anche questo. Volevate un Vince Neil che distrugge una macchina ubriaco e uccide sul colpo il batterista degli Hanoi Rocks? Non poteva mancare. E via di questo passo, fino alla tragica dipendenza da eroina di Nikki Sixx, il leader incontrastato della band. Non viene risparmiato nulla, nemmeno un cazzotto in bocca tirato da Tommy Lee a una litigiosa girlfriend, un accenno di ciò che sappiamo abbia fatto passare alla povera Pamela Anderson negli anni a venire. Dunque, la pellicola è solo un susseguirsi di immagini folli, party e autodistruzione? Assolutamente no, perché ogni fotogramma è accompagnato da tanta, tantissima musica: a partire dalle prime composizioni in saletta, alla ricerca del suono giusto, fino ai trionfali concerti in mutande di pelle e borchie, conditi dai fuochi artificiali e dai botti tipici dell’era glam (per altro, proprio come nel caso del film sui Queen, ricostruiti con dovizia di particolari maniacale). Non mancano nemmeno le sessioni del loro fortunatissimo album Dr Feelgood, autentico masterpiece della band losangelina, così come l’abbandono di Neil e l’avvicendamento di Corabi, con il quale, per altro, scrissero un capolavoro ingiustamente dimenticato, né tanto meno la tragica morte di Skylar, figlioletta di soli quattro anni dello stesso Vince. Bello anche il finale, ricco di sentimenti, ma per niente buonista. Insomma, The Dirt lascia poco all’immaginazione, ma lo fa nel modo giusto e niente e fine a se stesso. Bravi gli attori, perfetto Iwan Rheon nel ruolo di Mick Mars (per chi non se lo ricordasse, è stato il folle Ramsey in Game of Thrones) e un applauso a Jeff Tramaine alla regia, cui la folle esperienza con quella banda di scoppiati di Jackass ha sicuramente giovato nel raccontare la storia di questi fuori di testa.
E dunque, tutte queste critiche? Forse tutti noi, in quest’epoca di social, abbiamo perso un po’ di quel sano abbandonarsi alla meraviglia, il semplice gusto di aprire le orecchie ed ascoltare, senza dover per forza scrivere il nostro punto di vista, cercando di essere più arguti e critici degli altri, perché la nostra opinione conta e la dobbiamo rendere nota a tutti. Forse erano davvero meglio quegli anni ottanta, dove, se non eri d’accordo, al massimo spegnevi lo stereo. Con buona pace di tutti gli altri.