Considerato da tutti uno dei migliori chitarristi della sua generazione, Doug Aldrich, da qualche anno, è uno dei motori principali dei The Dead Daisies, supergruppo nel quale si divide il ruolo di maggior compositore con John Corabi. Prolifici come poche altre band nel panorama hard rock attuale, Aldrich ci ha raccontato la genesi di Burn It Down e molto altro.
Cinque album dal 2013 ad oggi, di cui uno live. Sembrate non avere una vita privata al di fuori della band…
“(Ride, ndr) Infatti non ce l’abbiamo. La cosa che ha stupito persino noi è che, come saprai, ognuno dei componenti di questa band è impegnato su più progetti contemporaneamente, quindi è davvero stupefacente la quantità di materiale che siamo riusciti a creare. Non ci vuole molto a capire che quando stai bene con qualcuno, le cose poi vengano fuori con questa facilità. Ogni volta che abbiamo composto un album, avevamo così tanto materiale che, la volta successiva, siamo sempre ripartiti da lì. Spesso non ne abbiamo tirato fuori nulla, ma in qualche caso ti capita di risentire uno spunto che avevi abbandonato che ti fa sobbalzare. Perché non lo abbiamo portato avanti la volta precedente? Impossibile da ricordare, talvolta sono davvero intuizioni, accordi che in quel momento sembrano non trovare la giusta collocazione. Di sicuro ci divertiamo e quando ti diverti non vuoi smettere di farlo troppo presto.”
La formazione, anche se non come in passato, è in continuo mutamento. Questa rimane una delle caratteristiche che vi portate dietro dagli esordi.
“Certo, io stesso sono arrivato anni dopo la fondazione, ma ho avvertito immediatamente un clima così aperto e libero da preconcetti, che non mi parso assolutamente strano che la formazione fosse, per così dire, in costante movimento. D’altra parte, l’idea originaria di David Lowy era quella di mettere in piedi una sorta di collettivo che potesse avvalersi dell’apporto di alcuni grandi nomi della scena australiana e di Los Angeles per fondere due filosofie musicali che avevano dato vita a pagine fondamentali della storia del rock. In questo senso, credo che quel concetto di band sia ancora lo stesso di allora. Oggi, comunque, credo che si sia formato un nucleo solido intorno cui tutto si muove, come poi è accaduto in tutti i grandi gruppi della storia del rock che hanno visto molti cambiamenti nella loto line up.”
Se possibile, mi sembra che il vostro amore per gli anni settanta aumenti con il passare del tempo. Burn It Down, in questo senso, mi pare la migliore dichiarazione d’amore possibile.
“Assolutamente sì. Siamo tutti degli incalliti fan di quel periodo storico e non solo per quanto riguarda le sonorità più pesanti. Credo che quello che è successo tra la fine degli anni sessanta e quella del decennio successivo sia qualcosa di stupefacente da ogni punto di vista. Ogni band era fonte d’ispirazione per le altre, che usavano quegli spunti per creare musica a volte ancora superiore. Un momento che qualcuno paragona agli anni novanta, ma che non può essere affiancato a nulla. Tutti i grandi del metal, quelli che oggi consideriamo i padri della musica pesante, arrivano da quella roba lì: Ozzy era un fan dei Beatles, per dire. Demo ammettere che c’è molta Birmingham in questo album e non abbiamo fatto nulla per nasconderlo. Lo stesso John è un grande fan dell’hard rock degli anni settanta, sia inglese che americano, così come di tutto quel fermento che si respirava all’inizio degli anni ottanta da una parte all’altra dell’oceano. Ognuno di noi è quello che ha ascoltato, c’è poco da fare e prima ancora che musicisti, siamo un fruitore musicali accaniti.
La band mi sembra sempre più svincolata dal passato dei propri membri e dai paragoni degli inizi. Avete creato ormai il sound dei Dead Daisies?
“Io sono arrivato nella band per il terzo album da studio, quindi ho vissuto solo dall’esterno le reazioni all’esordio del gruppo, ma devi sempre pensare che quando metti in piedi un progetto di questo tipo, la prima cosa a partire è proprio la caccia alle influenze e ai rimandi a questo o a quel gruppo di cui i membri hanno fatto parte. Se devo essere sincero, questa per me è una delle cose affascinanti dei cosiddetti supergruppi, perché è bello vedere cosa può prendere vita da una serie di musicisti con alle spalle una carriera di un certo livello. Credo comunque che all’inizio le influenze dei nostri passati fossero senza dubbio maggiori, mentre oggi, quando ascolti un nostro disco non puoi non capire di cosa si tratti. Non è semplice mettere in piedi qualcosa che poi resti nel tempo come qualcosa di non derivativo, quindi dobbiamo essere orgogliosi di essere sulla strada di ciò che volevamo raggiungere.”
Nel caso di band come la vostra si è soliti parlare di rock o hard rock classico, anche se i gruppi in questione esistono da pochissimi anni. Un ossimoro?
“In effetti, questa cosa è buffa, ma in realtà i due aspetti non sono affatto contraddittori. Una band può suonare quello che, nell’opinione comune, richiama sonorità classiche pur esistendo da pochissimo tempo. Penso a giovani band come i Greta Van Fleet, ma anche a Black Keys o Jack White, solo per fare alcuni nomi. Nel nostro caso, poi, l’anagrafe dei membri del gruppo parlano molto chiaro: siamo assolutamente dei classici (ride, ndr), quindi è tutto perfettamente in linea con quello che suoniamo. L’unica concetto che non vogliamo venga associato al nostro sound è quello della nostalgia, perché è qualcosa che non ci appartiene assolutamente. Siamo molto legati a un certo modo di fare musica e di sicuro i nostri punti di riferimento principali sono quelli con cui siamo cresciuti, ma allo stesso tempo i nostri brani non sono avulsi dall’epoca che stiamo vivendo. Molti musicisti della nostra generazione stanno scoprendo il gusto di suonare insieme per vedere cosa può nascere e i risultati sono spesso strabilianti. Pensa ai Black Country Communion, ormai la vecchia convinzione secondo cui questi progetti sono destinati a durare poco sta perdendo di valore.”
Dio, David Coverdale, Glenn Hughes e ora John Corabi. Sembri il partner perfetto per alcuni dei nomi più grandi della musica dura degli ultimi venticinque anni…
“Sono stato abbastanza fortunato da poter collaborare con alcuni di quelli che erano i miei idoli di bambino. Sentire elencati questi nomi mi mette abbastanza in difficoltà, perché faccio molta fatica a vedere dall’esterno quello che mi è successo negli ultimi decenni. Di sicuro, senza l’esperienza con Ronnie non avrei potuto acquisire un’esperienza tale da permettermi tutto quello che è venuto dopo e non solo per la sua importanza nella storia di questo genere. Stare insieme a lui mi ha migliorato come musicista, ma soprattutto come compositore e credo che il mio lavoro con David non sarebbe stato lo stesso senza di quello. Con John è tutto diverso, perché siamo praticamente coetanei ed abbiamo vissuto esperienze che, per certi versi, si assomigliano molto. Quando lavori con mostri sacri come quelli di cui parlavi, spesso, hai momenti in cui ti chiedi se potrai mai essere all’altezza della storia che hanno avuto, mentre nel caso dei The Dead Daisies questo aspetto è meno evidente, perché siamo tutti consapevoli di stare sullo stesso livello.”
Hai cinquantaquattro anni, ma sembri un trentenne. Non si direbbe che tu faccia una vita da rockstar. È così?
“Diciamo che credo ci sia un momento per tutto. Come tutti, mi sono goduto appieno tutto quello che questa vita ti offre, ma non sono mai stato un party animal o cose del genere. Sono una persona molto riservata e, anche se inevitabilmente sul palco mi trasformo, non ho mai amato i fari puntati addosso. Forse per quello ho sempre lavorato con frontman in grado di catalizzare completamente l’attenzione della gente (ride, ndr).”