Riuscire a fare una chiacchierata con Bruce Dickinson non è qualcosa che accade così di frequente, soprattutto quando gli Iron Maiden non hanno dischi di inediti in uscita. L’occasione ce la fornisce Soloworks 1990 – 2005, splendida ristampa in vinile della sua discografia solista, che si unisce a What Does This Button Do, la recente autobiografia in cui Bruce si racconta senza filtri al proprio pubblico. Naturalmente, c’è spazio anche per i Maiden e per la loro ennesima testimonianza live…
Cantante, pilota di aerei, campione di scherma, storico, scrittore. Quante personalità convivono in un solo Bruce Dickinson?
“Innumerevoli (ride, ndr). C’è un momento per tutto nella vita, poi alcune cose riescono a convivere, mentre qualcuna la perdi inevitabilmente nel corso della tua esistenza. Qualche volta anche quando non vuoi, come nel caso della scherma, per esempio. Oggi credo di aver trovato un equilibrio, mi diverto, cosa che non mi è capitata sempre nel corso della mia carriera, e faccio tutto perché lo voglio fare, non perché qualcuno mi costringe. Vado in giro a presentare il mio libro, sto scoprendo un rapporto diverso con il mio pubblico, senza urla, diciamo (ride, ndr). Si fanno molti errori nella vita, c’è gente che ne ha fatti meno di me e a cui è andata peggio. Io non ho sacrificato tutto al lifestyle da rockstar, anzi per certi versi sono la figura più atipica di questo mondo. Per altri invece…”
La tua storia musicale da solista, per molti versi, andrebbe completamente riletta e, probabilmente, rivalutata. Il ritorno del vinile ti ha servito l’assist perfetto?
“Diciamo che da tempo c’era l’intenzione di rimettere mano a quei dischi, visto che anche le ristampe in cd ormai risalgono a più di dieci anni fa. Il fatto che alcuni di quei dischi nemmeno fossero stati stampati in vinile ha fatto il resto. Non so se quei dischi abbiano bisogno di essere rivalutati, nel senso che molti di loro hanno goduto di buona fortuna già quando uscirono. Di sicuro, decontestualizzati dal marasma di certi periodi della mia vita e della mia carriera, è forse più facile riscoprire qualcosa che ai tempi era andato perso. La lucidità, tuttavia, è un’arma a doppio taglio, perché allo stesso tempo ti fa apparire anche alcune cose peggio di quelle che ricordavi (ride, ndr). L’unica cosa certa è che finalmente li ho radunati tutti, dando ancora la possibilità di vedere una parte importantissima della mia vita attraverso la mia musica fuori dagli Iron Maiden”.
Tra i dischi meno compresi, di certo va annoverato Skunkworks (col cui titolo gioca anche la collezione di vinili, ndr), un progetto che capirono in pochi.
“Tra i meno compresi anche da me (ride, ndr). A parte gli scherzi, certamente quello fu un azzardo che non solo capirono in pochi, ma che ai tempi mi creò anche qualche problema. Devi capire che mi trovavo in un momento davvero complicato, dal punto di vista umano e artistico. Balls To Picasso mi aveva lasciato l’amaro in bocca, per diversi motivi. Avevo lasciato la band, ma quello non era il mio debutto solista, quindi mi trovavo a fare i conti tanto con i paragoni con il mio passato con i Maiden, che con quelli con Tattooed Milionaire, che ai fan era piaciuto. Credo ancora che Balls To Picasso avesse dei buoni brani oltre alla nota Tears Of The Dragon, ma era un po’ troppo eterogeneo e il pubblico non era pronto a perdonarmi molto all’epoca. Ero quello che se n’era andato, quindi in pochi erano dalla mia parte”.
Quindi hai deciso di nasconderti dietro ad una band fittizia, per esporti di meno?
“In qualche modo sì. Era una specie di nascondiglio, anche se in realtà non riuscito benissimo. L’idea era quella di creare una band ed io esserne semplicemente un membro, uno dei tanti. Avevo paura di scottarmi nuovamente, quindi pensai che una cosa di quel genere avrebbe aiutato la mia creatività. David Bowie aveva fatto qualcosa di simile qualche anno prima con i Tin Machine e mi convinsi che si trattava della mossa giusta. La pecca di quel disco, per tutti quelli che mi avevano ascoltato fino ad allora, era che non aveva nulla che si potesse avvicinare al metal classico, anzi in molti lo inserirono sugli scaffali della musica alternativa. Puoi immaginare le reazioni dei fan: Bruce Dickinson non ha solo lasciato gli Iron Maiden, ma si è addirittura messo a fare musica che fa schifo (ride, ndr). Oggi ne rido, ai tempi, invece, era tutto maledettamente serio”.
Non avevi ancora compreso quanto fosse importante per la gente ciò che facevi?
“Sei convinto di sapere tutto e di avere tutto sotto controllo, ma non è affatto così. Quando sei troppo dentro alle cose, capita di perdere il contatto con la realtà. Qualcuno ha scritto che in quel periodo ero convinto di non riuscire più confrontarmi con la musica metal, col mio passato. La verità era anche peggiore: non mi sentivo più in grado di scrivere niente di nessun genere, avevo perso completamente la fiducia nelle mie capacità. Quindi cercavo aria fresca, per respirare, per sopravvivere. Inevitabilmente, venne fuori qualcosa di inedito, per certi versi troppo estremo, ma mi aiutò da moltissimi punti di vista. Capii che non potevo più nascondermi, che dovevo tornare a giocare sul mio terreno, quello che mi aveva dato le soddisfazioni maggiori. Senza paura.”
In quel periodo anche i Maiden non è che se la passassero proprio benissimo…
“Probabilmente non stavano passando il momento migliore della loro carriera, sono d’accordo, ma ancora non poteva esserci paragone tra me e loro. In ogni caso, le loro vendite erano sempre altissime e le date sold out. Certo, possiamo dire che forse io e Blaze Baley stessimo vivendo situazioni simili in quanto a smarrimento, ma niente di più. Loro erano rimasti un colosso, mentre io in quel momento lo ero sicuramente un po’ meno (ride, ndr). La vita è strana, perché da lì a pochissimo le situazioni si sarebbero invertite. Comunque li ho sempre ammirati per il rischio che si presero con la scelta di Blaze: avrebbero potuto arrivare a chiunque o trovare qualcuno che potesse cantare i miei pezzi, magari una donna, invece scelsero la strada più difficile”.
Sei tra quelli che non hanno mai nascosto la propria passione per un personaggio controverso come Aleister Crowley, tanto da dedicargli opere e perfino un film. Sei ancora ossessionato dalla sua figura?
“Non più di quello che sono sempre stato. Non sono il primo e non sarò certo l’ultimo ad essere stato affascinato da Crowley e dalle sue opere. Manifestare qualche tipo di simpatia per figure così contraddittorie espone inevitabilmente a pareri e critiche di chi non vede di buon occhio tutto ciò che abbia a che fare con l’occulto. Non sono una persona che far riti o cose del genere, sono solo ammaliato da tutta una parte di cultura che ha secoli di storia e che non può essere liquidata come i deliri di un folle. Crowley era una persona molto intelligente, che aveva capito il valore della provocazione e possedeva un grande senso dell’umorismo. Tutte cose assolutamente riscontrabili nei suoi lavori e che ho cercato in qualche modo di raccontare con più mezzi. Non mi aspettavo consensi unanimi”.
Ci hai messo anni a realizzare il tuo film su di lui, quali sono stati gli impedimenti maggiori?
“In effetti, si è trattata di una gestazione abbastanza travagliata. Avevo in testa quell’idea da moltissimo tempo e inizialmente non avevo nemmeno idea che tutto si sarebbe basato in maniera così forte verso la figura di Crowley. L’idea iniziale era quella di chiamarlo The Number Of The Beast, una scelta forse fin troppo autocitazionista. Poi, Julian Doyle mi suggerì The Chemical Wedding, preso da un libro che aveva appena letto che giocava col concetto di alchimia. So perfettamente che il disco che porta lo stesso nome ha avuto riscontri molto superiori, ma il film no voleva essere un’opera biografica o fedele alla realtà. Mi è sempre interessato come Crowley abbia potuto diventare uno dei capi spirituali del ventesimo secolo, come sia stato in grado di far diventare la magia qualcosa di profondamente filosofico e, allo stesso tempo, di tutti”.
Jimmy Page ha sempre detto di non voler parlare di certe cose per evitare che argomenti molto seri venissero trattati con scherno o linguaggio da tabloid. Tu lo rifaresti?
“Io ho avuto la fortuna di vivere artisticamente un periodo in cui tutto, o quasi, era sdoganato. Esordii con gli Iron Maiden con un album come The Number Of The Beast, in un momento storico in cui la cosa poteva dare ancora qualche fastidio, ma di certo non sconvolgeva veramente più nessuno. Se non qualche gruppo attivista o ridicole associazioni per la salvaguardia del giovane. Quando certe tematiche le toccavano i Black Sabbath o lo stesso Jimmy Page era ben diverso: tutto veniva stravolto, amplificato e buttato in pasto alla peggio specie di giornali. Page non era un appassionato di Crowley, era, e forse è ancora, uno studioso di scienze occulte, che tra l’altro aprì la libreria più affascinante e fornita del Regno Unito negli anni settanta. Si espose, ma poi fece diversi passi indietro, perché non voleva banalizzare un argomento per lui così importante. Nel mio piccolo, ho capito che quella sia la via da seguire”.
Una volta dichiarasti che l’acquisizione di certi segreti iniziatici da parte di Crowley fosse qualcosa di simile alla consapevolezza acquisita dai grandi campioni dello sport. Una sorta di conoscenza assoluta dei meccanismi dietro al funzionamento delle cose.
“Quello è l’unico modo possibile per poter essere un maestro, nel senso più elevato del termine. Crowley, a differenza dei suoi predecessori, decise che alcuni insegnamenti tenuti nascosti dalle società segrete dovessero essere resi pubblici. Non sono così ingenuo da pensare che lo facesse per pure filantropia, è chiaro che in quella pratica vide una facile via per guadagnare diversi soldi, ma non può essere ridotto tutto a quello o alle leggende che circolano intorno alla sua figura. In genere, chi parla di Crowley non ha letto Crowley. Semplicemente, negli anni ha fatto comodo a molti parlarne, perché è un nome che può darti qualche grattacapo, ma senza dubbio continua ad agire da cassa di risonanza, soprattutto per progetti che in altro modo non ne avrebbero”.
Il cofanetto esce in contemporanea alla tua autobiografia. In genere, queste operazioni servono a chi le scrive, prima ancora che al pubblico cui sono rivolte. Ti ci ritrovi?
“Scrivere un libro di questo tipo, e io l’ho fatto con carta e penna come si faceva un tempo, è un viaggio che ti costringe a fare i conti con tutto, soprattutto con quello che credevi relegato in qualche scompartimento della tua memoria o che avevi provato inutilmente a rimuovere. Quello è uno dei motivi per cui non ho voluto che nessuno mi aiutasse nella stesura, nessun autore a cui raccontare la mia storia, perché avrebbe inevitabilmente filtrato quei racconti attraverso se stesso, mentre io volevo che uscisse solo chi fossi io. Non ho certo scritto un’autobiografia solo per tornare sul mercato o fare felici i miei fan: innanzitutto è stato catartico e ha rimesso a posto alcune cose che ancora non lo erano. E poi mi piace raccontare, entrare nei particolari, parlare di ciò che amo”.
La malattia ha avuto un ruolo sulla decisione di raccontare la tua vita? Nel libro ne parli in modo approfondito, ma quasi con distacco, come se avessi consapevolezza che tutto si sarebbe risolto.
“Come mi è già capitato di dire, io ero davvero tranquillo nei confronti di tutta la faccenda. Ero molto spaventato, inutile negarlo, ma ho capito in fretta, o forse me n’ero semplicemente convinto, che le cose si sarebbero sistemate completamente. Sono una persona molto fortunata, dalla vita ho avuto ogni cosa che chiunque potrebbe desiderare e sono perfettamente consapevole che la cosa continui anche oggi, ma non per questo avrei lasciato questo mondo in modo sereno. La morte mi ha sfiorato, forse non è nemmeno mai stata davvero al mio fianco, ma solo l’idea è stata in grado di farmi fare ancora più cose rispetto al passato, a nutrirmi di ogni cosa mi passi affianco. Mi sono limitato a spiegare a cosa è stato dovuto il mio male, ma solo per fare luce su un problema molto sottovalutato”.
Quando parli dei tuoi insegnanti, mi hai riportato alla mente quelli descritti da Roger Waters ai tempi di The Wall. Era davvero così terrificante la scuola inglese?
“Molto peggio di quello che si possa immaginare e credo che ai tempi di Waters le cose fossero ancora più drammatiche. Per un lungo periodo, gli insegnanti erano autorizzati a fare qualsiasi cosa ai propri alunni, senza che alcun genitore alzasse un dito, anche perché la fiducia nell’istituzione scuola non poteva essere messa in discussione. Accadeva così che chiunque vivesse disagi di qualche tipo, spesso davvero molto pesanti e in grado di lasciare strascichi infiniti su quei ragazzi. Ogni volta in cui mi capita di sentire i passaggi di The Wall in cui si descrivono certe cose, non posso che provare un forte senso di empatia, proprio perché mi rendo conto di aver vissuto certe angosce e, con me, centinaia di altri studenti. In quel contesto malsano, tuttavia, trovai anche chi mi fece conoscere la scherma e per questo sarò sempre grato”.
Tornando alla musica, queste ristampe ci stanno preparando ad un nuovo album solista o qualcosa del genere?
“Sicuramente non ho più voglia di scrivere (ride, ndr). In realtà, ho scritto così tanto che il lavoro più grande è stato quello di editing. Ho lasciato fuori così tante cose che avrei dovuto pubblicare il libro in più tomi, ma non volevo che molti dei miei fan arrivassero ad odiarmi. Tuttavia, non voglio che tutto quel materiale vada perso o rimanga sepolto per decenni, quindi credo che lo utilizzerò in qualche modo, magari estrapolando delle cose e facendo un prodotto più particolare, che tratti qualcosa di specifico. Un volume due della biografia sarebbe ridicolo. E poi, sì, effettivamente sto lavorando ad un nuovo album, i cui lavori sono già iniziati da tempo e a cui vorrei dedicarmi molto presto. Sono molti anni anni che non pubblico qualcosa di mio, Tyranny Of Souls mi soddisfò tantissimo, quindi non vedo perché far passare quindici anni tra uno e l’altro (anche se in realtà i quindici anni sono vicinissimi, ndr)”.
Ai tempi non portasti in tour quel disco, per via degli impegni con la seconda fase della tua carriera negli Iron Maiden. Harris recentemente lo ha fatto, pensi ci siano possibilità di rivederti da solo su un palco?
“Bé, proprio da solo magari no, ma l’idea di girare un po’ con delle produzioni meno impegnative esiste e vedrò di portarla avanti durante qualche pausa della band. Steve alla fine l’ha fatto prima di tutti noi, mi ha fregato ancora (ride, ndr), ma ormai le cose sono così stabili e perfette che sicuramente avrò modo di farlo. Uno dei motivi che mi portarono ad andarmene fu proprio l’impossibilità di avere qualche passione che non fossero gli Iron Maiden, perché per quasi tutti gli anni ottanta eravamo costretti a tour de force disumani, alla fine dei quali ti chiedevi sempre chi te lo facesse fare. Anche dopo la reunion abbiamo suonato tantissimo e prodotti molti album, ma nessuno di noi era quello di allora. Altrimenti non avrebbe funzionato, te lo garantisco.”
Quindi i Maiden si prendono una pausa, è ufficiale?
“Sì, ma sai benissimo il significato di pausa per gli Iron Maiden. Non stiamo certo parlando di anni senza fare più nulla o ritirarci a vita privata. Dal 2014 non ci siamo fermati un attimo e io ci ho aggiunto il carico di una malattia che ha inevitabilmente caricato tutto di un peso non previsto. Abbiamo appena concluso un tour di due anni e, come da tradizione, a breve pubblicheremo una testimonianza di quell’avventura. Come sai, nulla viene lasciato al caso quando si parla di Maiden, quindi stiamo già lavorando a diversi progetti per il futuro, di cui non posso ancora parlare, ma per i quali siamo tutti molto eccitati. In mezzo, come ti dicevo, probabilmente ci dedicheremo ad altro o riposeremo, che non ci farebbe male (ride, ndr)”.
Siete tra le pochissime band classiche ad aver avuto per certi versi più consensi dopo la reunion che in precedenza. Come te lo spieghi?
“In effetti, è buffo. Se chiedi ad un fan storico degli Iron Maiden quali siano i suoi album preferiti, ti indicherà di certo qualcosa che va da The Number Of The Beast a Powerslave, mentre i più giovani ci aggiungerebbero Brave New World o altre uscite del nuovo millennio. Per certi versi è come se fossimo due band distinte, quindi pensare che la prima volta al numero uno della classifica di molti paesi ci siamo finiti negli anni duemila, fa davvero ridere. Da quando abbiamo esordito, la discografia è cambiata completamente, quindi probabilmente alcuni album storici vendettero anche più di quelli arrivati primi in classifica nel recente passato. È un segno dei tempi, ti conosce più gente perché tutto è pronto da utilizzare subito, ma vendi molti meno dischi. In compenso potresti suonare tutte le sere per dieci anni”.
Resta il fatto che voi siate stati tra i primi a cercare di sfruttare a vostro favore un evento negativo come quello del download illegale.
“C’è stato un momento in cui lo sport preferito dai discografici era lagnarsi del fatto che non si vendessero più dischi e che i tempi dei grandi guadagni fossero definitivamente terminati. Noi abbiamo sempre rivolto l’attenzione alla soluzione dei problemi. È chiaro che non tutto sia risolvibile, ma anche situazioni come quella del download illegale, che a un certo punto aveva assunto livelli tali da mettere a rischio il concetto stesso di discografia, viste da un altro punto di vista possono assumere nuove prospettive. Non siamo stati né gli unici, né i primi a mettere in atto qualche tipo di strategia, ma devo dire che vedere i luoghi in cui la nostra musica era più scaricata e andarci a suonare fu una scelta geniale: fare felice la gente e recuperare un po’ di denaro perso (ride, ndr)”.