Il mio rapporto con Nick Cave è lungo e travagliato e ho pensato si prestasse ad un articolo in cui il mio ruolo di giornalista lasciasse un po’ di campo al fan che c’è in me. Il concerto di Roma mi ha permesso di unire splendidamente le due cose, quindi mi è sembrato giusto raccontarlo con questo taglio.
Quando ancora suonavo i campanelli delle case discografiche, proponendomi come il giornalista che ancora non ero, mi imbattei in un dipendente della Emi della mia età che, al grido di “largo ai giovani”, mi infilò quasi abusivamente nella serie di incontri che Nick Cave stava tenendo con la stampa per promuovere Dig, Lazarus, Dig!!!, l’album con cui si ripresentava al mondo insieme ai suoi Bad Seeds. In pochi secondi, passai così dalle interviste ai terzi classificati ad Amici di Maria De Filippi ad una delle figure di riferimento della mia adolescenza, quasi a sancire un ideale passaggio all’età adulta. Mi raccontò degli strumenti giocattolo del figlio, di come li avesse utilizzati per la lavorazione al disco e della voglia di rimettersi in gioco dopo essere nato punk in Australia e diventato, nel tempo e forse suo malgrado, un esponente della musica colta nel mondo. Io, sudato come alla fine di una tappa del Tour de France e infinitamente piccolo, riuscii semplicemente a dirgli che, per uno strano scherzo del destino, ogni volta che era stato in tour in Italia, io, puntualmente, mi trovavo altrove. Sarebbe andata così ancora per molti anni, tanto che quella che per lungo tempo sembrava essere una semplice coincidenza, si era lentamente trasformata prima in qualcosa di cui ridere, ma poi, col tempo, in una vera e propria ossessione. Va be’, lo vedrò la prossima volta, mi ripetevo, ma dentro di me iniziava ad insinuarsi il dubbio che quell’incontro bagnato dall’emozione sarebbe stato l’unico della mia vita con lui. L’anno scorso, poi, mi mandarono a vedere One More Time With Feeling, l’intenso film attraverso cui Cave tentava di esorcizzare l’unica cosa che un essere umano non dovrebbe mai trovarsi ad affrontare, la scomparsa del proprio figlio. Proprio di quel figlio di cui avevamo parlato quasi dieci anni prima in quell’ufficio della Emi. Ero diventato padre da poco e la visione, inevitabilmente, sconvolse il mio animo in maniera indelebile. Retorico, ma riprovai la stessa sensazione di infinita piccolezza al suo cospetto, questa volta per motivi completamente opposti. Mostrandosi come un essere umano, allo stesso tempo, lo sentii più vicino che mai. Fu solo in quel momento che, in modo del tutto naturale, l’ossessione lasciò spazio alla pietas. Accettai quindi il fatto che, dopo una tragedia del genere, sarebbe stato molto difficile rivederlo su un palco.
Invece, proprio a supporto del suo album più intenso, ecco l’annuncio del tour mondiale e di ben tre date italiane nei palasport. Ingenuamente, mi ero immaginato che un album del genere meritasse luoghi raccolti, quasi sacri, in cui stringersi idealmente in un abbraccio consolatorio con un numero ristretto di persone. Non avevo compreso, invece, che Cave avesse bisogno del maggior calore possibile, di abbracciare davvero la gente, trovandone conforto, prima ancora che pietas. Affinché la catarsi si completasse, dunque, Nick aveva bisogno di contatto fisico. La continua tensione verso la platea, quelle mani che per tutto il concerto hanno cercato le nostre, non erano capricci di una rockstar che fingeva di essere come te, ma piuttosto un altro sintomo di un dolore insopportabile, una dichiarazione di estrema fragilità. La stessa fragilità che vedevi negli occhi dell’amico Jeffrey Lee Pierce, rievocato di continuo da sonorità fortemente debitrici dei suoi Gun Club.
Il concerto volge al termine, i Bad Seeds salutano e Nick Cave, algido, si dilegua come se fosse sempre il 1989. Il vero finale, tuttavia, è spiazzante. Almeno per me. Cave si butta nel parterre e inizia ad abbracciare chiunque gli capiti a tiro. Mi accorgo che si dirige verso di me, lo punto. Lo bacio. Al suo cenno, un manipolo di noi lo segue sul palco. I Bad Seeds diventano improvvisamente la mia backing band. Tappone dolomitico, maglia gialla.