Un album dal titolo enigmatico e l’annuncio di un tour che, fin dal titolo, sembrerebbe far presagire un inevitabile commiato dal proprio fedelissimo pubblico. Con questi elementi ci siamo trovati di fronte a Roger Glover, uno dei tre superstiti insieme a Ian Gillan e Ian Paice di quel Mark II che entrò nella storia del rock grazie ad una manciata di album epocali. Disponibile ed entusiasta, Glover ci ha confidato di non aver molta voglia di appendere il basso al chiodo.
Iniziamo dal titolo del nuovo album, che francamente mi riporta alla mente quello di Abandon. Anche qui, la doppia chiave di lettura ha dato adito a molte ipotesi circa il vostro futuro…
“Non è la prima volta che giochiamo con le parole. Come forse saprai, Ian Gillan è un vero maestro in questo genere di cose e anche Abandon fu opera sua. Come allora, anche oggi giochiamo con lo stesso concetto: ai tempi la cosa geniale fu trovare una parola con quel significato ma che, una volta scomposta (A band on) voleva dire esattamente il contrario. Qui giochiamo sul concetto di infinito, da sempre uno dei più affascinanti della storia dell’umanità. Quando ci siamo resi conto che il nostro logo si sarebbe potuto trasformare facilmente proprio nel simbolo matematico dell’infinito abbiamo capito che la strada da seguire fosse quella. Non è nemmeno il titolo di una traccia dell’album, ci sembrava rappresentasse alla perfezione quello che questa band rappresenta per noi, oltre alla consapevolezza di aver fatto cose per le quali sopravviveremo all’esistenza stessa del gruppo.”
In molti hanno voluto leggere nel titolo una dichiarazione d’intenti che pare confermata anche dal nome del tour che seguirà l’uscita dell’album, The Long Goodbye. Perché non dire direttamente: ragazzi, è la fine?
“Semplicemente perché non lo è. O meglio, è la fine di qualcosa, non di tutto. Ti confesso che una delle nostre paure è quella di fare dichiarazioni altisonanti cui poi non riusciremmo a far seguire delle azioni coerenti con esse. Non mi metto a fare nomi, ma negli ultimi anni abbiamo assistito ad una miriade di band storiche che hanno annunciato la fine della propria carriera in modo perentorio, annunciando album e tour d’addio cui poi sono seguiti altri dieci anni di carriera. Non fraintendermi, il fatto è proprio che comprendo perfettamente perché poi queste band non riescano a fermarsi: semplicemente perché appena smetti per qualche mese, tutto questo ti manca come l’aria. Quindi, consapevoli del fatto di non avere più un’età che ci consente di proseguire con tour infiniti, diciamo: rallenteremo un po’, ma non vi libererete ancora di noi.”
Quindi questo lungo addio potrebbe trasformarsi in qualcosa di simile al Neverending Tour di Bob Dylan, magari con meno date all’anno?
“(Ride, ndr) Oh, Bob. Se penso che quando ho iniziato a suonare lui era già il più grande e ora forse smetterò di farlo prima di lui, beh mi fa capire di essere una specie di nullità. A parte gli scherzi, credo semplicemente che diraderemo il numero di show, che anche negli ultimi vent’anni sono stati qualcosa di altamente superiore rispetto ai dischi pubblicati. Probabilmente inizieremo a selezionare di più le location, in modo da farci trovare sempre all’altezza della nostra fama. Siamo sempre stati una live band, ogni nostro album è nato in questo modo e non avrebbe alcun senso continuare ad esistere solo come band da studio, sarebbe come rinnegare tutto ciò che siamo e che siamo stati. In quel caso sì che preferirei smettere, perché tutta la faccenda perderebbe immediatamente di senso.”
Eppure, è opinione condivisa che i vostri ultimi lavori siano tra i migliori di sempre. Molti fan anche della prima ora preferiscono questi al periodo senza Gillan ma con Blackmore dei primi novanta, per esempio.
“I gusti sono inopinabili, quindi non è facile entrare in merito ad essi. Quello fu un periodo davvero complicato e col senno di poi capimmo tutti che fu un grave errore cacciare Ian invece di Ritchie. Quando sei immerso in una situazione del genere non è facile essere lucidi, ma di certo capimmo di essere diventati i Rainbow e la cosa non ci piacque per niente. Ian spesso è stato difficile da gestire, ma umanamente credo sia una delle persone più amabili sulla terra. Ad ogni modo, tornando al discorso, sì mi rendo conto del fatto che i nostri ultimi lavori siano stati molto apprezzati e i motivi credo siano molteplici. Un po’ è merito della line up, ormai la più longeva della nostra storia, ma sicuramente anche della maturità e del fatto che nessuno ci obblighi più a registrare nulla. Puoi sentire una forte continuità musicale che lega gli ultimi dieci anni anni della musica che abbiamo composto. Sicuramente da Rapture Of The Deep, ma forse anche da Bananas ad oggi.”
Visto che mi citi Bananas, avete compreso l’importanza della scelta delle foto di copertina dopo quel disco?
“(Ride, ndr) Se penso a quella faccenda, non riesco ancora a capacitarmi della reazione della gente a quella copertina. Siamo sempre stati una band molto autoironica, una caratteristica che ha sempre fatto parte soprattutto dell’animo di Ian Gillan, mio e di Paice. Prendersi troppo sul serio non ha senso e ti aiuta a perdere del tutto il contatto con la realtà, una delle cose più facili in una posizione privilegiata come la nostra. Eravamo in tour all’epoca e, quando ci trovammo di fronte a quei mezzi di trasporto completamente ricoperti di banane abbiamo pensato immediatamente che sarebbe stata un’immagine perfetta per il nostro album successivo. Era un gioco, una cosa goliardica, ma nessuno capì il lato buffo della faccenda. Noi non ci prendevamo sul serio e lo facevano gli altri per noi: folle! La cosa ci fece comunque ridere, anche se credo che l’album sia stato davvero sottovalutato, se non proprio non ascoltato. Che peccato.”
Ho visto il video delle registrazioni che uscirà insieme all’album e credo che se non foste saldamente ancorati alla realtà, non potreste lavorare con gente come Bob Ezrin che vi indica persino come jammare!
“Arrivati a questo punto, ci sono poche alternative per quanto riguarda la produzione di un disco. O decidi di autoprodurlo, ma non ci sembra la soluzione migliore nel nostro caso, o ti affidi a qualcuno che per esperienza e storia possa essere al tuo livello. L’esperienza dell’ultimo album, il primo insieme a Bob, fu fantastica. Credo che un album dei Deep Purple non abbia mai suonato in quel modo. Pensa a come avrebbero potuto suonare altri grandi dischi che abbiamo fatto in passato con una produzione del genere. Molti pensano che un produttore valga un altro e che se ci sono buoni pezzi sia tutto già fatto. Io, ribalto la cosa invece: ho ascoltato una marea di dischi terribili o comunque che non brillavano per la perizia nel songwriting, ma che con un’ottima produzione si sono trasformati in buonissimi prodotti. Poi certo, ci sono nomi altisonanti che con alcuni gruppi non funzionano, quindi senza alchimia è comunque tutto tempo sprecato. Bob ci ha ridato un entusiasmo che onestamente credevo svanito. Quando penso che abbia prodotto The Wall o tutta quella roba di Alice Cooper, beh un po’ di brividi mi vengono.”
E soprattutto non ha paura di dirvi quando qualcosa non lo convince, non ha nessun timore reverenziale o sudditanza psicologica…
“No, anzi, siamo quasi noi in soggezione quando siamo in studio con lui (ride, ndr)! Non so se hai presente le scene in cui dice a Steve come portare avanti il brano che stiamo improvvisando: Steve lo guarda a metà tra il basito e l’incredulo, ma poi in pochi secondi riesce a creare proprio quello che aveva in mente Bob. È stupendo lavorare con una persona che non ha paura di dirti: no quello fa schifo! Perché poi anche tu ti senti di poterlo fare e tutto è così spontaneo che a fine giornata non ti accorgi nemmeno di essere stato così tante ore in studio. Ho prodotti diversi album in cui ero anche uno dei componenti del gruppo e mi sono ripromesso che non l’avrei più fatto. Quando sei troppo invischiato non sei in grado di capire molte cose, non riesci ad essere incisivo come quando non hai altri rapporti con quei musicisti. Finisci per ripetere uno schema ed è proprio quello che vogliamo evitare in questa ultima parte della nostra vita.”
Credo che molti fan rimarranno colpiti dalla cover di Roadhouse Blues dei Doors. L’idea è arrivata da Ezrin?
“In realtà negli ultimi anni troviamo sempre più divertente cimentarci con materiale non nostro, perché confrontarci con altre band ci stimola molto anche in fase di scrittura. Roadhouse Blues è uno di quei brani che chiunque faccia questo mestiere, una volta nella vita si è trovato a suonare, un po’ come Smoke On The Water, per intenderci. Ci piaceva l’idea di omaggiare una band nata più o meno nel nostro periodo storico anche se apparentemente così diversa dal nostro sound. Dico apparentemente perché se vai ad analizzare le nostre carriere puoi trovare anche diversi punti in comune, soprattutto una voglia di andare oltre quelle che erano le regole standard del tempo. Mi sarebbe piaciuto anche registrare L.A. Woman, che credo essere un brano perfetto per noi, ma sarà per un’altra volta. Credo che i Doors siano stati una delle maggiori band di rottura della fine degli anni sessanta, tra le più stimolanti da ascoltare al giorno d’oggi.”
Tra l’altro, l’intro di All I Got Is You prima dell’arrivo dell’hammond potrebbe essere un pezzo di Morrison Hotel…
“(Ride, ndr) Sì, quello è un pezzo che mi piace molto. Paice è eccezionale nell’intro quasi jazzata che apre il brano e può davvero ricordare un po’ Densmore. D’altra parte credo che Ian sia ancora uno dei più grandi batteristi viventi e ogni volta mi stupisco delle sue improvvisazioni. Molto spesso iniziamo a jammare su qualcosa che sta suonando da solo alla batteria. L’aspetto più stimolante dello stare in studio è ancora quello dell’improvvisazione. Molte band dicono di registrare tutto dal vivo in studio o di tenere spesso il primo take per la versione definitiva, ma se l’hai fatto per tutta la vita ti accorgi subito di quando stanno dicendo una cazzata. Non avevamo mai voluto delle telecamere in sala d’incisione, perché ci sembrava potessero portare via un po’ della magia legata a quel minimo di mistero che devono avere certe cose. Invece probabilmente si trattava dell’ultimo tassello necessario ai nostri fan per comprendere davvero chi siano oggi i Deep Purple e capire che tutto ha sempre funzionato così, nel bene e nel male.”
Voi e i Doors siete state le prime rock band il cui sound è stato pesantemente influenzato dall’organo. Nessuno prima di voi aveva fatto diventare mainstream quello strumento.
“Questo perché noi e i Doors avevamo la fortuna di avere in gruppo due geni assoluti dello strumento come Jon Lord e Ray Manzarek. Oggi è difficile da capire, ma ai tempi, inserire uno strumento come quello era qualcosa di completamente fuori dagli schemi e in molti vedevano quelle sonorità come un ibrido difficile da inquadrare. Questo perché i membri di entrambi i gruppi avevano estrazioni e cultura musicale molto differenti gli uni dagli altri. Noi per esempio avevamo Blackmore con la sua passione per il neoclassico, Jon Lord con i suoi studi classici e Paice che non disdegnava incursioni in territori totalmente differenti da quelli del rock classico. Loro avevano addirittura quelle influenze di flamenco portate da Krieger, che aggiungevano sonorità semi sconosciute in ambito mainstream. Quelli erano tempi in cui sperimentare era ancora lecito. Pensa al Concert For Group And Orchestra: anche quello oggi è routine, ma ai tempi era follia e la capirono in pochi, ma in ogni caso ci permisero di farlo. Oggi non sarebbe più possibile, tanto che il rock è diventato in qualche modo la musica classica.”
Ecco, la classicizzazione del rock è un argomento che ritengo molto interessante. Credi davvero che il futuro del rock sia quello? Quindi le sale da concerto gremite di gente pronta ad ascoltare Smoke On The Water suonata da altri?
“Da un certo punto di vista, penso sia inevitabile e che il processo sia già iniziato da tempo è ormai chiaro. Nonostante ci sia stato un sostanziale ricambio generazionale durato fino agli anni novanta, qualcosa ad un certo punto si è fermato. Quando ero giovane sarebbe stato impensabile andare a vedere gente di settant’anni dal vivo in luoghi grandi come l’O2 Arena, perché il rock apparteneva ai giovani ed era precluso al resto della società. Oggi quando vai a vedere una band di cinquantenni ti ritrovi a dire: ah be’ però sono ancora giovani. Questo allungamento delle carriere di band come la nostra da una parte è una cosa buonissima, ma dall’altra è chiaramente il segno di qualcosa che non va. Ian è solito prendere parte a tributi ai Deep Purple, molto spesso nel vostro paese e lo fa con entusiasmo. Io mi sentirei un po’ a disagio.”
Eppure voi, con le innumerevoli line up di cui è costellata la vostra storia, in qualche modo avete dimostrato che conti più lo spirito che i membri della band. Non credi?
“Sì, in questo senso siamo una band particolare, ma anche qui ci sarebbe da parlare a lungo. È vero, siamo riusciti a dimostrare che non sia il singolo elemento a rendere la band speciale, ma allo stesso tempo tutto funziona perché un nucleo importante di una delle varie formazioni è ancora presente. E capiscimi, probabilmente sarebbe la stessa cosa se in formazione ci fossero Glenn Hughes e Coverdale. Non può mancare un elemento di continuità con la tua storia, o tutto perderebbe di poesia secondo me. Quando Jon lasciò fu un momento davvero complicato, molto di più di quando se ne andò Ritchie. Lì ho pensato davvero che sarebbe potuto finire tutto, perché avevo sempre visto in Jon la vera linfa del nostro sound. Arrivavamo da un ottimo periodo e il suo addio ci colse tutti alla sprovvista. Don è un genio dello strumento, ma non avevo idea di come sarebbe cambiato il nostro modo di comporre: pensai addirittura che non avesse più senso scrivere nuova musica. Poi compresi quello di cui parlavamo prima: ormai i Deep Purple erano diventati un’entità a sé stante.”
Nonostante siano passati quattro anni dall’uscita di Now What?!, credo sia evidente la continuità tra i due album. Merito solo della stessa produzione o questa è ormai la vostra cifra stilistica?
“Come dicevo prima, penso che la continuità sia evidente fin da Bananas, forse perché quello fu il primo album con Don in formazione. Di certo, la mano di Bob Ezrin contribuisce a far sembrare i due album qualcosa di simile ad un volume uno e due, anche se questa volta l’elemento dell’improvvisazione è ancora più presente che sul disco precedente. Che l’aspetto commerciale del tutto non sia più una nostra priorità è chiaro da tempo e le vendite di Now What?!, le migliori da vent’anni a quella parte, ci hanno confermato che la coerenza paga. Le critiche all’album lasciarono di sasso prima di tutto noi, che non avremmo mai pensato di raggiungere certe cifre a un passo da settant’anni. Quando siamo volati a Nashville per registrare InFinite, quindi, le pressioni erano se possibile ancora inferiori ad allora. E quella tranquillità si evince dalle nuove tracce.”
Eppure in mezzo ci sono stati altri grandi album. Penso a Purpendicular per esempio.
“Hai ragione. Se quel disco uscisse oggi, molto probabilmente, la gente griderebbe al capolavoro. Ma tutto va contestualizzato. Il disco precedente fu quello dell’ultima reunion con Ritchie, finita nel modo drammatico che tutti conoscono. Fu tremendo, perché passammo dalle arene e dalle vendite di The Battle Rages On al delirio di dover trovare un nuovo chitarrista in pochissimo tempo. Satriani in pratica ci salvò ed è stato bello ritrovarci per InFinite. Purpendicular risentì di tutto quel periodo e fu uno di quei classici casi in cui dall’oscurità riesci a tirare fuori davvero il meglio che puoi. In molti si rifiutarono a prescindere di comprare l’album perché Blackmore non faceva più parte del progetto, poi con gli anni si sono ricreduti praticamente tutti. Rages On fu invece un incubo, l’esatto opposto del clima che si poteva respirare a Nashville pochi mesi fa: tutti ci chiedevano l’album definitivo del Mark II e nessuno di noi era interessato a farlo.”
Cosa pensi del ritorno di Ritchie al rock?
“Ho sempre avuto un buonissimo rapporto con lui, pur non condividendo molte delle sue azioni e del suo modo di comportarsi nella band. Allo stesso tempo sono ancora convinto che lui e Ian fossero un po’ come Jagger e Richards, ma con ancora più lati estremi e personalità che quando arrivavano al limite non riuscivano davvero a stare nella stessa stanza. Quando però il clima era buono abbiamo creato alcune delle cose più incredibili che la musica popolare abbia potuto vedere. Vederlo tornare a suonare con i Rainbow mi ha fatto piacere, anche se davvero non comprendo la scelta di non avere nemmeno uno dei tanti musicisti passati dalla band in tutti quegli anni. O forse lo capisco perfettamente, conoscendo molto bene il suo carattere.”
Tutte le volte che parlo con Glenn Hughes mi parla del sogno di un grande concerto in cui riunire tutte le anime dei Deep Purple. Credi sarebbe possibile una cosa del genere?
“Assolutamente no, da mille punti di vista. Il primo motivo è rappresentato dalla scomparsa di Jon, l’unico che forse sarebbe riuscito a mettere d’accordo una serie di prime donne come quella che si sarebbe venuta a creare in un ipotetico evento del genere. Al di là di quello, poi, organizzare qualcosa di quel tipo resta qualcosa di idealmente molto romantico, ma che andrebbe a scontrarsi con la realtà. Credi davvero che Ritchie si presterebbe ad una cosa così? Sinceramente, credo che nemmeno io sarei entusiasta della cosa. Glenn è una bravissima persona e il suo lato peace and love lo spinge ad immaginare raduni di quel tipo, ma nessuno di noi è ridotto al punto di dover raschiare il barile fino a quel punto. Siamo tutti molto rispettati, continuiamo a scrivere nuova musica e a riempire le arene. Preferisco guardare avanti.”