Sembrava che Brian Wilson avesse deciso di saltare l’Italia con il suo tour commemorativo di Pet Sounds, probabilmente il più grande capolavoro dei Beach Boys, nonché una delle pietre miliari della storia del rock. Invece, qualche volta i sogni si avverano.
Mentre a Roma gli U2 celebravano uno dei punti più alti della loro lunghissima carriera, a poco più di un’ora dallo stadio Olimpico, nella cornice di Umbria Jazz, avveniva una delle cose più emozionanti di quest’estate musicale italiana, a memoria d’uomo probabilmente la più ricca di eventi dai fasti degli anni novanta. L’Arena Santa Giuliana di Perugia, infatti, ha visto sbarcare nel nostro Paese Brian Wilson, una delle figure chiave della musica popolare del novecento, per alcuni (tra cui il quinto Beatle, George Martin) il più grande genio musicale vivente, di certo uno la cui arte e la cui vita meriterebbero trattati e analisi che ancora oggi risulterebbero attuali nonostante i decenni trascorsi. Sì perché, se nella capitale sessantamila persone hanno giustamente festeggiato insieme a Bono e compagni un album fondamentale come The Joshua Tree, Wilson è in giro da due anni a riproporre per intero Pet Sounds, il disco che secondo la leggenda spinse Paul McCartney a creare le basi di quello che sarebbe poi diventato Sgt. Pepper. Roba da poco, insomma. La cosa buffa è che proprio in queste settimane il cugino di Wilson Mike Love e i “suoi” Beach Boys sono impegnati nella celebrazione dei cinquant’anni di Wild Honey e dei classici immortali della band californiana. Il confronto, nemmeno a dirlo, è impietoso. Se nel caso di una band come i Pink Floyd, infatti, pubblico e critica si dividono da decenni, in questo caso ci vuole pochissimo per capire non solo chi sia il genio creativo dei Beach Boys (parafrasando proprio la definizione che Roger Waters dà di se stesso), ma anche quale dei due show fosse quello davvero imperdibile. Un conto era stata la reunion del 2012, con quelle scalette monstre di quasi cinquanta brani, che aveva permesso al mondo di rivedere tutti i membri superstiti sullo stesso palco dopo decenni, un altro è vedere Mike Love girare con bravi musicisti a rifare materiale scritto quasi per intero da Wilson. Per onestà intellettuale, va detto che già allora era stato straniante vedere Mike Love fare il piacione con le donne delle prime file, mentre Brian Wilson era perso tra i suoi demoni, relegato in un angolo del palco con la tuta e un camicione da obeso. Era sembrato quasi un insulto alla grandezza di un artista che di fatto ha un posto nel pantheon del rock insieme ai Lennon, ai McCartney, agli Hendrix e così via. Oggi, fortunatamente, la situazione è ben diversa. Brian è al cento del palco, curato e, a tratti, anche voglioso di scherzare col suo pubblico. La scaletta, ora come nel 2012, è da brividi lungo la schiena e parte col botto con California Girls, per poi regalare una serie di hit impressionanti che hanno il compito di preparare la strada all’esecuzione per intero di Pet Sounds, appunto. La band è fenomenale e la presenza di Al Jardine, altro membro fondatore dei Beach Boys e Blondie Chaplin, anche lui in una formazione del gruppo e storico turnista degli Stones, rende tutto ancora più intenso. Nemmeno a dirlo, le armonizzazioni vocali sono la cosa più sconvolgente della serata: nessuno, se non forse gli stessi Beatles, hanno mai raggiunto gradi di perfezione simile a questa in più di sessant’anni di storia del rock e durante il corso della serata è impossibile non comprendere l’influenza di tutto ciò su decine di band, in primis i Queen, i cui primi album si reggevano in gran parte proprio su armonizzazioni che dovevano quasi tutto alla band di Wilson. Il clima, ad ogni modo, è agrodolce: Wilson fa davvero tenerezza e vederlo spesso perso in pensieri che nessuno dei presenti potrà mai sapere, fa molto male. Un’esistenza segnata dalla malattia mentale, dai down durati anni, dalle voci che ti dicono cosa fare e cosa suonare, non si cancella nemmeno quando la tua età e la tua compostezza farebbero pensare ad altro. La sensazione è che Wilson sia riuscito a tornare alla realtà, ma che una parte di lui sia sempre rimasta simile a quella del Syd Barrett pelato con la busta della spesa di quelle foto impietosamente rubate dai paparazzi inglesi. Quella parte, infatti, non è sul palco di Umbria Jazz e forse è proprio quella che lo spinge a scappare dal palco subito dopo la straziante esecuzione di Love And Mercy, un brano pregno di malinconia che chiude con estrema intensità la serata, stridendo pesantemente con l’abbuffata di encore che aveva spinto tutti i presenti a lasciare le proprie sedie per correre a ballare sotto il palco. D’altra parte, Brian non sapeva nemmeno surfare.