I Radiohead sono tornati, prendiamone tutti atto. Il secondo grande evento musicale della stagione in ordine di tempo, dopo l’abbuffata rock ‘n’ roll di sabato scorso a Imola con i Guns N’ Roses, ha chiarito una cosa: l’Italia è tornata un paese in cui ha un senso venire a suonare. Mentre ci si interroga se quella in essere possa già essere considerata l’estate concertistica definitiva (per proposta, numero di biglietti venduti e qualità complessiva degli eventi), ci ritroviamo insieme a più o meno cinquantamila persone a tributare il doveroso omaggio ad una band che, seppur forse non più influente come un tempo, ha assunto ormai lo status di ultimo classico di un decennio, gli anni novanta, che per intensità e caratura dei personaggi non ebbe nulla da invidiare a quelli che lo avevano preceduto.
Se, infatti, la prima metà di quella decade aveva visto come faro principale i Nirvana, quella successiva (complice il lutto mondiale per la scomparsa di Cobain) trovò ampia consolazione nel gruppo di Thom Yorke e compagni, che divennero di colpo non solo la new best thing del rock alternativo (che poi, alternativo a cosa?), ma anche il prototipo di quello che le case discografiche si misero a produrre da lì in avanti. Oggi, la sensazione è meno entusiastica e più malinconica: anche i Radiohead, ormai, sembrano appartenere a all’Olimpo di quei gruppi con trent’anni di vita alle spalle, che una buona parte dei presenti ai concerti va a vedere come farebbe con i Rolling Stones. Insomma, è un po’ come la se la splendida serata dell’Ippodromo Del Visarno ci abbia sì confermato che l’industria della musica dal vivo stia vivendo una nuova età dell’oro, ma che allo stesso tempo lo faccia quasi sempre con prodotti conservati benissimo, ma non più freschissimi.
Detto ciò, il ritorno della band che quest’anno festeggia i vent’anni (appunto) dall’uscita di OK Computer è di quelli che segnano la storia. La sensazione generale è che il gruppo o il solo Thom Yorke, chissà, abbiano fatto pace col proprio passato e, soprattutto col loro status attuale. Gli anni delle sperimentazioni esasperate, alcune riuscitissime, altre molto meno, sembrano un po’ aver lasciato il passo all’accettazione della realtà e a riconsiderare tutto il proprio catalogo come qualcosa da cui attingere senza paura di perdere credibilità o sembrare nostalgici. Sì perché, ad un certo punto della carriera, sembrò quasi che Yorke, come prima di lui avevano fatto altri grandissimi della storia del rock, cercasse a tutti i costi di rifiutare tutto ciò che aveva portato la band al successo di massa, relegando in un angolo della propria anima quel talento melodico che probabilmente temeva potesse nuocergli in qualche modo.
Pur non essendo mai stato un autore da verse chorus verse, è infatti innegabile che Yorke possedesse una straordinaria capacità di creare brani in grado di superare il momento storico in cui venivano composti, ma che portavano con sé inevitabilmente il germe dell’adorazione di massa. Il timore, per altro comprensibilissimo, era forse quello di trovarsi di fronte a masse oceaniche di minus habentes in grado di recitare a memoria solo pezzi come Creep o Karma Police, senza tuttavia comprendere un decimo dello spirito della loro musica. La differenza principale tra un Morrison o un Cobain, che in qualche modo morirono di questo, e Yorke sta forse proprio in questo: che quest’ultimo, ad un certo punto della propria esistenza, abbia iniziato a fregarsene, senza per altro spostare tutto sui lidi del paraculismo più smaccato.
Oggi, infatti, è palese che quell’elemento sia completamente scomparso e la cosa, per chi scrive, ha reso tutto forse (un po’) meno sperimentale e d’élite, ma di certo non meno intenso e comunque assolutamente bilanciato tra presente e passato. I suoni, come sempre splendidi, l’utilizzo sapiente delle luci e delle immagini, uniti a quello snobismo apparente che si è sgretolato al primo intervento in italiano di Yorke e ad una setlist da brividi, hanno fatto il resto, relegando senza paura di smentite la data di Firenze tra le migliori in assoluto della band nel nostro paese. Dopo due ore e mezza di emozioni, la ruffianissima chiusura affidata a Karma Police conferma quanto detto fino ad ora. Qualcuno storce il naso, ma i Radiohead fanno ormai parte del sistema e, alla fine, va benissimo anche così.