Un nuovo album di Roger Waters era qualcosa a cui forse non eravamo preparati e che ci costringe ancora una volta a fare i conti con ciò che nel mondo funziona meno. Se qualcuno si fosse chiesto se il vecchio Rog sia ancora in grado di fare ottima musica, la risposta non può che essere affermativa.
Se già prima dello scioglimento dei Beatles i fan della band inglese si erano quasi equamente divisi tra lennoniani spinti e accaniti sostenitori delle silly love songs di McCartney, dopo la scissione quella spaccatura divenne sostanzialmente insanabile e finì per acuirsi con l’andare degli anni e delle polemiche tra i due ex condottieri della band. Ma cos’era che spingeva l’ascoltatore medio a schierarsi da una parte o dall’altra? Era evidente che non si trattasse di una semplice questione musicale: il motivo era sicuramente più profondo. Se Macca aveva dalla sua una capacità melodica e una preparazione tecnica fuori dal comune, Lennon aveva altro, qualcosa che nemmeno vent’anni di studi accademici avrebbero potuto conferigli. Dietro di sé, John aveva il Mostro. Un mostro che mentre l’amico scriveva Martha My Dear, lo portava a comporre cose come Happiness Is A Worm Gun, per intenderci. Più o meno lo stesso mostro che accompagna fin dall’infanzia un artista come Roger Waters, protagonista insieme a David Gilmour di scissioni e schieramenti forse ancora più insanabili di quelli che avevano caratterizzato la fine dell’avventura dei Fab Four. Senza nemmeno toccare Syd Barrett, un altro che qualche problema con cui lottare ce l’aveva, Waters era di sicuro l’irrisolto dei Pink Floyd, quello la cui arte fu fin da principio segnata dai traumi che si portava dietro fin dall’infanzia e che, col passare del tempo, diventarono sempre più ingombranti. Fu proprio quel mostro a portare la band alla deriva, molto più delle arcinote questioni politiche legate alle Falklands e a tutto quello che gli stessi protagonisti fecero intendere. Se, fino a Wish You Were Here, ciò che abeva alimentato maggiormente la parte disfunzionale di Roger era stato proprio il fantasma di Barrett, da Animals in avanti la poetica del “genio creativo dei Pink Floyd” (per usare le sue stesse parole) si infarcì sempre più di ossessioni legate alla prematura scomparsa del padre, unite ad un sempre più marcato impegno politico e sociale che, comunque la so voglia vedere, era sempre stata alieno a Gilmour. Il tempo, lo sappiamo, porta equilibrio e fa dimenticare quasi tutto. Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a reunion, riappacificazioni e attestati di stima tra uomini che, varcata la soglia della senilità, sono stati in grado di ammettere le proprie colpe, se poi delle colpe fossero esistite realmente. Abbiamo persino potuto ascoltare i primi brani semi politici di Gilmour. Tuttavia, il primo album di Roger Waters in venticinque anni ci ricorda che alcune cose non possono cambiare, nemmeno quando l’età anagrafica potrebbe far credere il contrario e quando tutti i lutti sembrerebbero elaborati. Is This The Life We Really Want? è così legato a tutto quello di cui ha parlato Waters (soprattutto da The Final Cut in poi) da risultare persino disturbante al primo ascolto. Se il primo singolo Smell The Roses, poi, aveva fatto temere un nostalgico rimescolamento di sonorità al limite dell’autoplagio (fatto benissimo, va detto), ascoltare nella sua completezza questo disco significa invece comprendere che Waters non avesse esaurito il fuoco creativo che aveva sempre albergato in lui, ma che semplicemente forse non riusciva più ad esprimerlo in una forma compiuta. Chi parla di ritorno alle atmosfere di The Wall e Animals coglie fino ad un certo punto la questione, perché se qualche rimando al disco di Sheep è lampante, mi sembrano maggiori i riferimenti proprio a The Final Cut o ad Amused To Death, piuttosto che al concept del 1979. Al di là dell’aspetto musicale e dei testi che, ad ogni modo, restano qualcosa di così intenso da non sembrare degni di quest’epoca fatta di insulti social, una cosa è certa: quando la tua vita psichica è segnata dalla lotta continua con i tuoi demoni, i totalitarismi, le Falklands, la Guerra del Golfo, le torri gemelle e tutto quello che esserci in mezzo, non sono altro che semplici micce.
Il resto, quel mix a volte ingenuo di impegno, dramma, autocommiserazione e contraddizioni varie, probabilmente non ha mai abbandonato la sua testa. Nemmeno in questi ultimi venticinque anni.