Il tempo passa inesorabilmente, tanto che la sensazione è che nel giro di una decina d’anni, o forse meno, tutti gli artisti che hanno reso immortale la golden age del rock ‘n’ roll non saranno più in grado di solcare un palco. Fortunatamente, possibilità ne abbiamo ancora molte.
C’è poco da fare: dopo tanti anni, quarantacinque per l’esattezza, la magia e la classe di Bryan Ferry e della sua musica restano inalterate. Il leader dei Roxy Music ha saputo letteralmente incantare un teatro degli Arcimboldi gremito fino all’ultimo posto con un mix assolutamente perfetto di hit vecchie e nuove (queste ultime davvero poche, a dire il vero), pescate quasi totalmente dal repertorio della band inglese che gli diede la celebrità. È in grande forma Ferry e lo si capisce sia dall’entusiasmo con cui risponde alle continue dimostrazioni d’affetto del suo pubblico, sia da una voce che non vede cedimenti per nessuno dei centoventi minuti complessivi dello show. La band, nella quale alla chitarra spicca un magnifico Chris Spedding, vecchia conoscenza di chi ama il classic rock inglese, è di quelle delle grandi occasioni e si destreggia perfettamente tanto con i brani più tirati del periodo glam dei Roxy Music, sia con le sonorità più patinate e new romantic che caratterizzarono i loro anni ottanta della band, oltre che le hit di album solisti come Boys And Girls. È proprio dal capolavoro del 1985 che, dopo il brano d’apertura, il vecchio latin lover estrae a tradimento Slave To Love, la prima di una lunghissima serie di super hit della serata, anche se il concerto prende il via definitivamente con la successiva Ladytron, tratta dall’incredibile debutto del 1972, che dà il via a venti minuti completamente dedicati al periodo glam del gruppo, quello che vedeva ancora in formazione Brian Eno. Il fatto che non ci siano nuovi album da promuovere si rivela una manna dal cielo per chi assiste per la prima volta ad un concerto di uno dei grandi superstiti di un periodo che, anno dopo anno, continua a perdere pezzi da novanta. In questo senso, il fantasma di David Bowie aleggia costante sulle teste dei presenti e su quella dello stesso protagonista della serata: un po’ come l’amico scomparso l’anno scorso, seppur in misura e maniera differente, anche Ferry ha infatti saputo reinventarsi senza perdere un briciolo di credibilità e mantenendo quella classe tipicamente british che ne ha caratterizzato l’intera carriera. Inutile sottolineare i boati con cui i fan hanno accompagnato ogni classico della discografia, in particolare More Than This, Love Is The Drug e Re-Make/Re-Model (per chi scrive, l’apice assoluto della serata), anche se le sorprese più grandi le hanno riservate le cover scelte per questa tranche di tour europeo. A metà concerto, una Like A Hurricane di Neil Young così stravolta e credibile da sembrare un brano uscito dalla sua penna e infine, poco prima del gran finale affidato a Editions Of You, una Jealous Guy da brividi. Insomma, lo show cui idealmente era affidato il compito di dare inizio alla stagione concertistica milanese, si candida come uno dei migliori dell’intero cartellone. Ne riparleremo a settembre.