Sentire oggi Ian Hunter, classe 1939, intonare dal vivo un brano come All The Young Dudes può far sorridere, ma d’altra parte dovrebbe valere più o meno lo stesso discorso per gente come gli Stones o gli Who che, superati i settant’anni, canta ancora con convinzione di brown sugar o del dover morire prima di invecchiare. Se è ormai palese che il rock sia un paese per vecchi, ce lo dimostra anche il tasso di mortalità sempre più elevato ogni anno che passa, è altrettanto vero che il buon Ian, prima di approdare al successo di massa, di strada ne percorse moltissima, arrivando in più di un’occasione a pensare che quel mondo e, di riflesso, quella Swinging London che sembrava dare una possibilità a chiunque, a lui proprio non volesse darla. La stampa, poi, non lo osannò mai al pari di altri leoni inglesi del tempo, ma spesso mise in secondo piano la sua proposta perdendo tempo dietro ad inutili paragoni. Con Dylan, in primis, e poi, con poca fantasia, con tutto il filone glam di cui, va detto, come Lou Reed e Bowie, fece parte davvero per un lasso di tempo brevissimo. L’unico punto in comune con tutti quei personaggi poteva essere Mick Ronson, che dopo aver fatto trovare a Bowie il sound che cercava ed aver prodotto con lui sia Reed che i Moot The Hoople, trasformò in oro anche i primi passi solisti dello stesso Hunter. La verità, ad ogni modo, è che Ian Hunter e i Mott The Hoople sono stati molto di più di una delle tante band salvate dal futuro Duca Bianco all’inizio degli anni settanta: furono dei precursori e come tutti i precursori arrivarono prima alla pancia della gente che alla critica specializzata, che li trattò sempre con sufficienza. Il suo modo di cantare, così unico, melodrammatico e spesso eccessivamente affettato resta poi qualcosa di completamente irriproducibile e un marchio di fabbrica tra i più riconoscibili della musica popolare. Se gente come Brian May e Joe Elliott, ancora oggi, sostengono che band come Queen e Def Leppard senza di lui non esisterebbero, be’, forse è il caso di rivalutarne completamente la figura e l’importanza nella storia del rock.
Ascoltando i tuoi lavori degli anni duemila, la sensazione è che tu sia arrivato a mettere una serie di punti a discorsi lasciati aperti per lungo tempo. È così?
“In un certo senso sì, anche se credo che faccia parte di un processo che non definirei prettamente conscio. Gli anni ottanta, come per molti artisti della mia generazione, sono stati un decennio molto particolare, in cui per cercare di reinvertarsi, spesso si correva il rischio di diventare ridicoli. Nessuno di noi è stato esente da passi falsi, ma a ben vedere la maggior parte di questi scivoloni potrai ritrovarli in quegli anni. Mi trovai spaesato, poi, di colpo, mi resi conto che dovevo semplicemente fare quello che mi era sempre riuscito meglio, quindi ho smesso di pensare a quanti dischi avrei potuto vendere o cosa avrei potuto fare per stare al passo coi tempi. Credo che lì sia iniziato un percorso che mi ha portato, molti anni dopo, a ricongiungermi davvero con me stesso. Di quegli anni, comunque, ricordo con particolare affetto il disco a doppio nome con Mick (Ronson, ndr), uno di quegli album che mi piacerebbe vedere in quelle stupide liste degli album da rivalutare. Ne farò una io, magari (ride, ndr).”
Quanto ha significato per la tua carriera il sodalizio con Ronno?
“Se consideri che in pratica lo rubai al mio vecchio gruppo quando decisi che quella storia fosse giunta al termine, puoi capire quanto credessi che insieme a lui avrei potuto creare la musica migliore che avessi mai composto. Se poi ci sia riuscito, non posso essere io a dirlo, ma sono sicuro di una cosa: senza di lui, oggi forse sarei ricordato banalmente come un reduce di un periodo storico ben preciso e nient’altro. Inoltre, qualche anno prima, aveva praticamente salvato la mia carriera producendo l’album che fece diventare i Mott The Hoople una delle maggiori attrazioni del music business della prima parte degli anni settanta. Anche solo per quello, la sua importanza nella mia esistenza risulta incalcolabile. Inoltre, insieme Bowie ha fatto cose che nessuno prima di loro aveva avuto il coraggio di compiere, da qualsiasi punto di vista.”
Quel disco, All The Young Dudes, rappresenta proprio uno dei molti casi in cui l’amore di David Bowie verso un gruppo che l’aveva ispirato lo portò a gesti di grande generosità.
“Bowie aveva una capacità rara di scrivere brani che, al primo ascolto, diventavano dei classici. Diciamo che ciò avvenne per davvero molti anni. Una di quelle grandi composizioni decise di regalarla a noi, con un gesto che mostrava un altruismo raro in un mondo come quello. Non si trattava di uno scarto recuperato dallo studio o qualcosa del genere, era un brano che sarebbe diventato comunque una hit nella sua discografia, qualcosa che solo un folle avrebbe donato ad un’altra band. Quando decidemmo di scioglierci, Pete (Watts, bassista dei Mott The Hoople) chiese a David se gli servisse un bassista, avendo saputo che stava mettendo su una nuova band. A quel punto, David disse che la nostra storia non poteva concludersi in quel modo. La verità è che aveva amato così tanto la nostra band che voleva sdebitarsi in qualche modo e lo fece in quel modo. Non solo potemmo andare avanti a vivere di musica, ma in qualche modo tutta la mia carriera ne fu segnata.”
Bisogna anche ammettere che la versione di Bowie non possedesse la forza della vostra, non credi?
“Onestamente, no. Quando la sentii la prima volta, pensai che fosse un pazzo completo a regalare un brano con quel potenziale. Cioè, era come se gli Stones ci avessero donato Ruby Tuesday o qualcosa del genere. Poi, però, ascoltai la versione in studio e capii che qualcosa non andava. Per esempio il sax, che nella nostra versione sparì. Il mood generale del pezzo non ci convinceva e, sostanzialmente, non convinceva nemmeno lui. Probabilmente aveva davvero capito che avremmo potuto farne una super hit. Come saprai, ci propose anche Suffragette City, che era un ottimo brano, ma non qualcosa con cui avremmo potuto fare il botto. Di buoni brani eravamo pieni anche noi, in quel momento avevamo bisogno di un capolavoro e All The Young Dudes lo era senza ombra di dubbio.”
Da questo punto di vista, resta più difficile capire perché rifiutaste invece Drive-In Saturday…
“A differenza di Dudes, che non era stata originariamente pensata per noi, David scrisse Drive-In Saturday con in mente il nostro gruppo. Forse fu quella la differenza rispetto alla prima volta o forse, più semplicemente, non volevamo correre il rischio di rimanere troppo legati a lui e ad un filone troppo preciso. Fu un errore? Forse, chi può dirlo. Di sicuro noi ci trovavamo in un altra situazione, anche dal punto di vista psicologico: non avevamo più l’acqua alla gola ed eravamo nel pieno di uno dei momenti creativi più ispirati della nostra carriera. Sia Mott che The Hoople sono considerati ancora oggi dei capolavori, quindi forse sottovalutammo anche un po’ quell’offerta. Credo che David un po’ se la fosse presa, ma non sempre le cose vanno come avresti immaginato.”
Tu eri più grande di lui, ma non hai mai nascosto quanto la sua figura fu di grande ispirazione anche per te. In definitiva, cosa ha significato per te David?
“Anche se non ci siamo visti per anni e abbiamo avuto qualche piccolo screzio da star, ci siamo sempre amati moltissimo. Lui per decenni ha vissuto in America e per lungo tempo in uno stato di semi isolamento, quindi anche volendo non sarebbe stato facile incontrarsi. Ho sempre capito molto bene la sua voglia di uscire dallo star system, anche perché io stesso, per natura, non sono mai stato un grande frequentatore del jet set, quindi ho sempre compreso molto bene la sua voglia di tranquillità. Per quanto mi riguarda, mi ha fatto capire che essere statici sia l’errore più grande che possa fare un’artista. Non dobbiamo perdere la curiosità: se succedesse, meglio smettere e ritirarsi.”
In qualche modo il suo fantasma aleggiò sopra di te a lungo, visto il tuo sodalizio con Mick. Cosa ti manca di più lui, quando ci pensi?
“Mick è stato probabilmente tra le tre o quattro persone migliori che abbia conosciuto in vita mia, oltre che un musicista dal gusto indescrivibile. Quando lo conobbe, David disse di aver trovato il suo Jeff Beck. Io credo che, pur non avendo la tecnica dei guitar heroes di quella generazione, avesse qualcosa che loro non possedevano: la capacità di capire al primo ascolto quello che avrebbe funzionato e quello che era meglio scartare senza troppi rimpianti. Era un arrangiatore fuori dal comune e molto del lavoro fatto in produzione insieme a Bowie era in realtà lavoro suo. Da anni parlo con amici e addetti ai lavori di quanto sia stato sottovalutato il suo lavoro di produttore e arrangiatore: pensa ad un album come Transformer di Lou Reed, se hai conosciuto Mick e il suo modo di concepire la musica non puoi non capire la sua importanza su quel disco. Così come quella che ebbe su All The Young Dudes, logicamente.”
Lasciare i Mott in quel momento della tua vita non salvò solo la tua carriera, ma anche la tua sanità mentale. Non credi?
“Stavo andando completamente fuori di testa. Ero in crisi nera e sull’orlo di un esaurimento nervoso che avrebbe potuto mettermi fuori gioco per anni. Capivo che avrei dovuto fermarmi ma anche che non poteva farlo in quel momento. Ronno era appena entrato nella band e la sensazione era che avessimo finalmente trovato un musicista in grado di non far rimpiangere Mick Ralphs, ma dopo poco io mollai il colpo, abbattuto dal peso del mio stato psicofisico. Loro proseguirono, ma io capii subito che il mio futuro non poteva che essere insieme a Mick. Insieme eravamo perfetti e lo si capì subito dalle prime sessioni insieme. Forse ancora più che con David, col quale aveva cambiato per sempre la musica inglese, insieme a me si sentiva sullo stesso piano, non su scalini diversi. E poi aveva una personalità così votata al dialogo che era impossibile non andarci d’accordo.”
Credi per la musica e l’esplosione mondiale di Bowie abbia ricoperto un ruolo più grande di quello che gli viene attribuito?
“Come ti dicevo, credo che Mick sia uno dei musicisti più sottovalutati della sua generazione e di questo era convinto anche Bowie, che non perse mai occasione per rimarcarne l’importanza per tutta la sua epopea. Molti sono convinti che Ronson si sia limitato a suonare la chitarra negli Spiders From Mars, senza pensare che il suo sodalizio con David iniziò molto prima. Pensa alle parti di chitarra di The Man Who Sold The World, che degli album pre-Ziggy stardust è sempre stato il meno considerato. Musicalmente parlando era eclettico quanto lo stesso Bowie, anche se non poteva avere nel suo repertorio tutto quello che poi David fece dalla metà degli anni settanta in poi, non era il suo mood. È indubbio, comunque, che su tutta il cosiddetto periodo glam di Bowie Mick abbia avuto un’influenza determinante a livello musicale. Forse non era un mostro di tecnica, ma era un genio assoluto dello strumento e degli arrangiamenti.”
La vostra partecipazione al Freddie Mercury Tribute resta una delle cose più emozionanti di sempre. Tu, David e Mick sullo stesso palco a suonare All The Young Dudes. Per alcuni fu la chiusura definitiva di un cerchio iniziato nel 1972.
“In qualche modo fu anche la fine di un’epoca del rock inglese. Eravamo lì a celebrare una delle figure più influenti che il Regno Unito avesse mai conosciuto e, tristemente, quello sarebbe stato anche l’ultimo show a cui Mick avrebbe preso parte. Era già malato e purtroppo se ne sarebbe andato l’anno successivo. Non so chi ebbe l’idea di farci suonare tutti insieme, forse David o probabilmente i Queen superstiti, fatto sta che non eravamo mai stati tutti e tre sullo stesso palco e quella fu una performance magica e toccante. Per chi era cresciuto con la nostra musica, quella fu davvero una specie di chiusura di una storia iniziata vent’anni prima e pensarci oggi è qualcosa che mi riempie di nostalgia, ma per la quale ringrazio ancora il destino. Credo sia stato giusto utilizzare quella canzone per chiudere il suo ultimo album, anche se la registrazione non rende pienamente giustizia all’esecuzione.”
Cosa resterà di tutta quella stagione del rock inglese? Credi che i semi di tutta quella creatività possano ancora dare vita ad una nuova generazione di rocker?
“Purtroppo sono troppo fuori da certi meccanismi per potermi lanciare in qualche tipo di previsione su quello che mi chiedi. Di sicuro, in quel periodo storico, si concentrarono una serie di fattori concomitanti così unici da essere probabilmente irripetibili. Ognuno traeva ispirazione da altri, c’era un gran senso di condivisone che forse rappresentava l’ultimo retaggio del sogno hippie o qualcosa del genere. E poi, c’era una quantità tale di talenti che sarebbero diventati celebri in qualsiasi campo si fossero cimentati. Parlavamo dei Queen prima: Brian May sarebbe stato un astrofisico rivoluzionario, così come Freddie avrebbe detto sicuramente qualcosa di importante nell’ambito delle arti visive. Per non parlare dello stesso Bowie, che forse più di chiunque altro sarebbe potuto essere una figura di spicco in almeno tre campi differenti. Ad ogni modo, compare periodi storici differenti credo abbia poco senso, perché la società e, di conseguenza, gli artisti vengono influenzati enormemente dal clima socio politico che si trovano a vivere.”
Ci hai detto che il tuo album solista da riscoprire sia YUI Orta in duo con Ronson. E se parliamo dei Mott?
“Se parliamo dei Mott, credo che un disco amato ma non come dovrebbe sia senza dubbio The Hoople, l’ultimo a cui presi parte. Tutti citano All The Young Dudes e Mott quando parlano della band, ma riascoltare quell’album è qualcosa che mi mette sempre i brividi. Rispetto a Mott è forse meno lineare e coerente, ma ci sono dentro alcuni dei miei brani preferiti in assoluto, da The Golden Age Of Rock N’ Roll a Marionette e Roll Away The Stone. E poi Saturday Gigs, che registrammo in quel periodo e a cui sono particolarmente affezionato.
I tuoi ultimi lavori rivelano più lati della tua personalità, anche se la sensazione è che tu oggi sia più vicino a Bob Dylan o Leonard Cohen che a un glam rocker. Chi è oggi Ian Hunter?
“Ian Hunter oggi è un uomo della terza età che però non ha perso quella scintilla che aveva quando aveva venticinque anni e che non riesce a smettere di fare questa vita. Sono praticamente sordo, come avrai capito dal mio tono di voce e dalle volte in cui ti ho chiesto di ripetermi le domande, ma non sono domo e non lo sarò mai. Sono più vicino agli ottanta che ai settanta, ma non ho paura del futuro, non ho mai avuto paura della morte. I due autori che citi sono sempre stati fonte di ispirazione immensa, in particolare Dylan. Non ho mai nascosto il mio amore per lui, credo sia il più grande genio del ‘900.”