A distanza di soli due anni dall’ottimo Disconnect, l’ex chitarrista dei Porcupine Tree John Wesley sforna probabilmente il disco migliore della sua carriera solista. Unendo alla perfezione le due anime del musicista americano, A Way You’ll Never Be si annuncia come una delle sorprese di questa fine d’anno.
La prima cosa che appare evidente è il tentativo di mischiare completamente gli elementi musicali che hanno caratterizzato la tua carriera. Lo hai fatto con cognizione di causa?
“Assolutamente sì, ho lavorato davvero duramente su questo aspetto e credo di essere riuscito a raggiungere una sorta di equilibrio quasi perfetto tra la mia anima di cantante compositore acustico e quella in grado di sfornare riff pesanti con la chitarra elettrica. Sono sempre stato diviso in due fin dall’infanzia, con una parte di me più introspettiva, che in genere si evince dai miei testi, e l’altra più aggressiva e sfrontata, che mi riesce meglio esprimere in musica. Talvolta questi elementi si invertono, ma tendenzialmente si amalgamano alla perfezione in quel modo. Fino ad un certo punto della mia carriera pensavo che l’anima di un disco dovesse essere una, pena l’incoerenza musicale, ma poi ho compreso che erano tutte cazzate.”
Infatti, paradossalmente, A Way You’ll Never Be è uno dei tuoi album più compatti in assoluto, segno che non è la varietà di stili a decretarne la coerenza.
“Sicuramente gran parte del merito va assegnato alla mia band e in particolare a Mark Prator e Sean Malone, che hanno donato ai brani una sezione ritmica senza precedenti per un mio album. Hanno fatto un lavoro pazzesco su ogni canzone, contribuendo in maniera assolutamente decisiva sul risultato finale. Il resto lo hanno fatto i testi dei brani, le melodie e come siamo riusciti a suonare come band: non ho dubbi sul fatto che A Way You’ll Never Be sia l’album più coeso, avventuroso e ispirato da molto tempo a questa parte. Non ho problemi a dire che un mio album sia venuto meglio o peggio di altri, non sono mai stato un’ipocrita in questo senso. Ho scritto roba migliore o peggiore, qui siamo tra le cose migliori che ho fatto.”
La tua età ti pone a metà tra i chitarristi che hanno fatto la storia dello strumento e le nuove leve, quindi il tuo stile oggi appare come quello dei tuoi idoli, ma dopo un’opera di svecchiamento. Ti ci ritrovi?
“Direi di sì. Non a caso, i nuovi brani stilisticamente rivisitano in chiave moderna tutto il chitarrismo anni settanta con cui sono cresciuto. Anagraficamente mi avvicino alla generazione dei guitar hero degli anni ottanta, ma quel tipo di sound e album non mi hanno mai interessato fino in fondo. Ho sempre amato un approccio allo strumento diverso, frutto proprio dei miei ascolti giovanili. Gente come Gilmour mi ha insegnato che in ogni situazione less is more. Sempre. Meglio un tocco di un certo tipo, un fraseggio non complicatissimo ma sentito, piuttosto che una serie infinita di note a dimostrare che sono un virtuoso dello strumento. I chitarristi che ho amato di più hanno puntato tutto sul feeling, l’unica cosa che ti fa arrivare senza mediazioni all’ascoltatore.”
Le tematiche del disco sono molto “alte”, con continui riferimenti letterari e in particolar modo a Ernest Hemingway. Sei un lettore accanito?
“Assolutamente sì, amo leggere e sono un grande fan di Ernest Hemingway fin dai tempi dell’adolescenza. Negli ultimi anni ho riflettuto moltissimo sul concetto di generazione perduta, che l’autore creò ai tempi del suo primo libro Fiesta. Seppur con le distanze del caso, ho iniziato a riscontrare somiglianze tra i personaggi che Hemingway inseriva in quella generazione che era partita per la prima guerra mondiale e le persone della mia età che conosco da più anni. Insomma, influenzato da quella lettura mi sono messo a scrivere storie tratte da cose che avevo vissuto in prima persona e che sono legate proprio a quelle persone. Ho cercato di fare una sorta di parallelo tra la sua lost generation e la mia. Il risultato talvolta è criptico, ma credo di aver raggiunto il mio obiettivo.”
Il tuo stile si è evoluto molto nel tempo, più anche di quello che era lecito aspettarsi.
“Credo che evolvere sia inevitabile per un musicista, soprattutto per chi cerca continuamente di apprendere cose nuove con lo strumento. Se avessi smesso di esercitarmi anni fa, probabilmente oggi sarei ancora quello di Under The Red And White Sky, per dire. Un giorno Steven Wilson mi disse: nessuno nasce completo. Credo sia una delle frasi migliori per spiegare la mia voglia di trovare sempre nuove vie con cui esprimermi.”