Di artisti tanto influenti quanto sottovalutati è piena la storia del rock, ma forse a Michael Monroe spetterebbe un premio speciale alla carriera, vista la continuità di rendimento che lo porta a pubblicare con regolarità album di altissima qualità senza mai raggiungere le vette che meriterebbero. Ad ogni modo, pare che al buon Michael, sempre più impegnato a mantenere la propria integrità piuttosto che il facile consenso, la cosa non interessi minimamente…
Sei considerato una delle figure più influenti degli anni ottanta, quanto meno per quanto riguarda un genere che gruppi come Motley Crue e Guns hanno portato in cima al mondo. Ora la vivi bene, ma hai avuto momenti in cui avresti distrutto tutto?
“Beh, non sarei umano se non avessi momenti in cui mi chiedo quale sorta di maledizione abbia accompagnato la mia carriera per molti anni. Il fatto che oggi non la viva con rancore o astio di alcun genere non significa che non sia dovuto passare da un processo di elaborazione che è durato davvero molto tempo. Oggi, invece, sono completamente libero da certi fantasmi e credo che la cosa si evinca dalla quantità di album che ho registrato negli ultimi anni. Il passato non mi imprigiona più e ho imparato a godermi quello che mi dà la vita, che è comunque sempre stato oltre ogni aspettativa. Lennon diceva che la vita è quella cosa che ci accade mentre siamo impegnati in altri progetti, ecco oggi mi sento così”.
Eppure anche i tuoi album più recenti ti dipingono in modo leggermente diverso dal Lennon casalingo che scrisse quei versi…
“(Ride, ndr) In effetti non è ancora tempo per il mio ‘Double Fantasy’. A parte gli scherzi, aver accettato determinate cose non significa aver abbandonato l’amore per quello che facevo. Sono convinto, d’altra parte, che recitare una parte sarebbe stupido, quindi nel momento in cui mi sentissi ridicolo in questi panni, smetterei all’istante. Non credo nemmeno sia una questione d’età, perché gente come gli Stones o gli Who sono ancora molto credibili oggi, a mio parere. Io, a differenza loro, però ho ancora voglia di scrivere o, per lo meno, di mettermi in gioco. Certo, va detto anche che con quella sfilza di hit forse anch’io andrei solo in giro ad autocelebrarmi!”
Parlando di autocelebrazioni, anche in questo senso sei sempre stato un personaggio molto schivo. Anche quando, riformando gli Hanoi Rocks, avresti potuto fare un po’ di cassa.
“Qualche volta ne abbiamo anche parlato dopo la reunion di qualche anno fa, ma nessuno di noi ha pensato che fosse il caso di portarla avanti. In quel caso sì che, probabilmente, mi sentirei fuori luogo e in un ruolo che non mi appartiene più. Quella band è stata qualcosa di davvero importante per noi e credo sia più giusto mantenere quel prezioso ricordo senza rischiare di diventare dei fenomeni da baraccone. È sempre un discorso di credibilità: siamo sempre stato ai margini, abbiamo sfiorato il successo e abbiamo influenzato molte giovani band. Non farei a cambio con due anni di successo planetario. O meglio, se avessi a disposizione una macchina del tempo non la userei per cambiare quelle di cose…”
Immagino cosa andresti a cambiare della tua vita, tutte cose che non hanno a che vedere con la musica, probabilmente.
“Sai, io sono una persona che non vive assolutamente di nostlagia e che ha sempre cercato di non avere rimpianti nella vita. Quello che ci capito, buono o cattivo che sia, ci è semplicemente capitato ed è inutile perdere la testa nel chiedersi i motivi. Nella mia vita, come chiunque essere umano, ho vissuto le mie tragedie e ho fatto i miei errori, ma so di potermi guardare allo specchio senza ombre, perché sono sempre stato una persona onesta. Non ho mai pensato che gli Hanoi Rocks sarebbero potuti diventare chissà cosa se Razzle non fosse morto: sarebbe quasi come dargli la colpa in qualche modo. Abbiamo scelto di essere coerenti e la coerenza, amico mio, paga sempre.”
Quando Razzle morì e Sammy Yaffa decise che non era più della partita, per un attimo avete pensato di continuare. Poi cosa successe?
“Successe una cosa che mi cambiò la vita e che mi fa essere quello che sono anche oggi. L’addio di Sammy fu un colpo durissimo, anche perché eravamo molto legati. Puoi capire, però, quanto un evento di quelle dimensioni sia in grado di far saltare tutti quegli equilibri precari che magari, in una situazione normale, riescono a mantenersi saldi. Insomma, quando mi resi conto che stava facendo sul serio, mi chiesi subito che senso avrebbe avuto andare avanti senza tutti i membri sopravvissuti a quella tragedia. Andy la vedeva in modo leggermente diverso e, col senno di poi, riesco a anche a capirlo: la band stava per fare il grande salto, o almeno così sembrava, quindi i sentimenti in lui erano altrettanto confusi”
E chi ti fece capire che sarebbe stato un errore?
“Gli unici due veri amici che avevo in quel momento: Stiv Bators e Johnny Thunders. Entrambi mi dissero che non avremmo dovuto comprometterci con qualcosa che avrebbe inevitabilmente distrutto tutto. La gente che Andy stava prendendo in considerazione non possedeva un briciolo dell’attitudine che avevamo, sembravano tutti pesci fuor d’acqua e, francamente, c’era anche da capirli. Ad un certo punto dissi che non avrei fatto parte di un circo che andasse in giro a dire: siamo quelli a cui è scomparso il batterista da poco. Non sarebbe stato giusto. Stiv mi aiutò molto anche nel ricominciare da capo, mi insegnò moltissimo in termini di songwriting. Dio lo benedica sempre.”
Andare in giro per strada a testa alta è ancora il tuo unico obiettivo?
“Certo, quello non deve mancare mai. Non suonerò negli stadi, ma suono in continuazione e quando rallento è perché lo decido io, non per mancanza di richieste. Già questo è significativo. Sai, l’unico posto dove davvero non posso muovermi senza essere fermato da qualcuno è la mia terra, nel resto del mondo sono un tizio stravagante che viene guardato a volte con sospetto e altre con ilarità. Qualche volta, negli States, qualcuno mi ferma e mi dice che assomiglio ad una rockstar, io gli dico che effettivamente sono un rocker: la star la lascio fare ad altri sul Sunset Strip.”
Non sei sicuramente uno edizioni deluxe di vecchi album, ma a molti piacerebbe una riedizione dei progetti Jerusalem Slim o Demolition 23. Ci pensi mai?
“Per quanto riguarda i primi, molto onestamente, ti dico di non sperarci assolutamente. Ricordo quel progetto come la cosa peggiore che mi sia mai capitata in studio di registrazione: sulla carta poteva essere davvero una bomba, ma Steve Stevens e il produttore che volle a tutti i costi lo trasformarono in un vero incubo. Non ricordo un episodio piacevole di tutta la faccenda. Se, come per i Demolition 23, avessimo chiamato Little Steven a produrre l’album, allora sarebbe stata tutta un’altra storia. Con Stevie parliamo da anni di rimettere mano a quell’album, ma poi ci perdiamo sempre nei nostri progetti attuali.”
Qualche volta dal vivo rifate Stone Cold Crazy dei Queen. Sei un fan insospettabile della band?
“Assolutamente sì! Chi dice che non si possa essere dei vecchi punk e non amare i Queen? Credo che quello che hanno fatto nella prima metà degli anni settanta sia totalmente folle e ancora insuperato, anche se più che album ultra celebrati come A Night At The Opera ho sempre amato ‘Sheer Heart Attack’: puro genio.”