Dopo il trionfale concerto dello scorso luglio al Circo Massimo, dichiarai, in modo un po’ provocatorio, che Springsteen avrebbe dovuto prendere in considerazione l’idea di fermarsi o, quantomeno, di tornare con qualcosa di diverso da un altro album con l’E Street Band. Poche settimane dopo, con grande enfasi, venne annunciato che, insieme all’attesissima autobiografia, sarebbe stato pubblicato un album contenente cinque inediti che avrebbe ripercorso idealmente tutta la carriera del Boss. Insomma, una colonna sonora del libro scritto di proprio pugno.
Quando, dopo più di vent’anni di carriera, nel 1995 Springsteen diede alle stampe il suo primo Greatest Hits, critica e fa rimasero parzialmente delusi. Le quattro tracce inedite (quasi tutti vecchi brani risuonati per l’occasione) che lo vedevano tornare in compagnia della storica E Street Band, non riuscirono nel miracolo di risollevare una raccolta che, oltre a non vedere inspiegabilmente brani tratti dai primi due dischi, tutti avevano sperato essere davvero definitiva e ricca di rarità. Va detto che quelli erano anni difficili per il Boss, molto criticato dopo le prime uscite discografiche del nuovo decennio e ritenuto forse incapace di raggiungere i fasti di un tempo. Nemmeno la vittoria di un Oscar, poi, era riuscita a scaldare i cuori della gente, tanto che Streets Of Philadelphia veniva considerato uno dei pezzi peggiori della sua discografia da quasi tutti i suoi die hard fan. Insomma, iniziava a serpeggiare il sospetto che Springsteen stesse iniziando a imborghesirsi. A rimettere le cose a posto ci pensò il colossale cofanetto Tracks, così pieno di chicche da saturare la voglia di inediti di chiunque e la colossale reunion con la E Street Band, non per un progetto temporaneo ma per uno dei come back più esaltati della storia recente della musica popolare. Dopo una serie continua di nuovi album e concerti dalla durata sempre più lunga, in cui la sua figura ha finito per avvicinarsi sempre più a quella degli dei della mitologia greca, a Springsteen mancava solo una cosa: quello di raccontarsi in prima persona. I libri su Springsteen, negli ultimi trent’anni, hanno saturato il mercato dell’editoria musicale, quindi solo una pubblicazione del diretto interessato poteva invertire un trend che, onestamente, sembrava giunto ad un binario morto. Bruce, però, ha voluto fare di più, compilando in prima persona un’ideale colonna sonora della sua autobiografia. L’idea di una colonna sonora per un libro è qualcosa di forse non inedito, ma di davvero figo, soprattutto se pensiamo a quanti fantasmi possa aver rievocato un lavoro intimo come questo. Quasi a voler chiudere un cerchio ideale iniziato proprio vent’anni fa con la prima retrospettiva della carriera, Springsteen ha quindi ripreso in mano la propria vita, che mai come questa volta è impossibile dividere dalla propria arte, invertendo in qualche modo il processo di vent’anni prima: se là gli inediti chiudevano il disco e venivano riattualizzati dalla nuova E Street Band, qui le novità aprono le danze e lo fanno in modo spiazzante e sorprendente. Le prime due tracce, Baby I e You Can’t Judge A Book By The Cover risalgono ai tempi dei The Castiles, gruppo scolastico il cui repertorio era basato sullo stile musicale dei gruppi inglesi che stavano cominciando ad affermarsi anche negli Stati Uniti: basta infatti un ascolto per comprendere l’impatto della british invasion di Beatles, Stones e Who sulle menti della giovane band. L’ascolto prosegue con He’s Guilty (The Judge Song) accreditata agli Still Mill, gruppo in cui militavano i futuri compagni di E Street Band Vini Lopez, Danny Federici e Steve Van Zandt. Il suono inizia a definirsi via via che i brani scorrono sullo stereo ed è questa possibilità di rimettere insieme tasselli che ci mancavano che rebde davvero prezioso Chapter And Verse, ancora più del valore artistico che, va detto, spesso è più che trascurabile. Discorso a parte per l’unico brano a nome Bruce Springsteen Band, Ballad Of Jesse James, piccolo gioiello che mischia sonorità della West Coast (Neil Young su tutti) a quelle dei Lynyrd Skynyrd o comunque di band sudiste dell’epoca: un mix che ai tempi doveva apparire quanto meno azzardato, visto le diatribe che vedevano coinvolti proprio due concezioni della vita così differenti. Quando finalmente giungi Henry Boy, incisa nel giugno del ’72, proprio pochi mesi prima del debutto, capisci che Bruce aveva finalmente trovato la strada che stava cercando: seppur ancora molto debitore del primo Dylan, quel ragazzo dalla voce roca e sofferta, aveva iniziato un percorso da storyteller che non è ancora giunto alla naturale conclusione.