Circo di vecchi dinosauri bolliti? Musicisti senza più stimoli né voglia di rimettersi in gioco? In molti modi vengono spesso definite le vecchie glorie del rock che non vogliono rassegnarsi alla pensione. Molto spesso, quasi sempre ad onor del vero, la realtà è qualcosa di ben diverso…
Dieci anni senza Who in Italia sono una tortura che nemmeno i Vietcong agli americani catturati nella vegetazione del Vietnam, soprattutto se consideriamo che l’ultima apparizione su un nostro palco (Arena di Verona 2006) venne funestata da un tifone che ne ridusse drasticamente la durata e l’impatto. La promessa di Townshend di ritornare molto presto, a conti fatti, non è stata mantenuta, ma la prima delle due date di questo Back To The Who Tour 2016 ha fatto di meglio: ci ha regalato una delle serate più sconvolgenti di questa estate concertistica e, probabilmente, una delle migliori degli ultimi dieci anni. Che gli Who siano sempre stati una delle più grandi live band della storia, per alcuni la migliore in assoluto, è cosa nota. Meno scontato era che due settantenni, accompagnati da un gruppo di musicisti di livello assoluto, potessero ancora esprimersi su certi standard. Le immagini della recente data in Austria, poi, avevano aggiunto un po’ di apprensione nei fan, timorosi di trovarsi di fronte un gruppo imbolsito, stanco e indegno della propria fama. Tutto fugato, tutto cancellato in pochi secondi: l’attacco di I Can’t Explain, non eseguita nelle ultime date prima di quella bolognese, lascia subito intendere la voglia di farsi perdonare per l’assenza prolungata e, allo stesso tempo, è la migliore delle dichiarazioni di intenti di una serata che non avrà mezzo calo di tensione. La scelta dei pezzi è assolutamente in linea con le celebrazioni dei cinquant’anni del gruppo, tanto che già a metà della serata chiunque di noi potrebbe andarsene senza avere alcun rimpianto. Una scritta sul megaschermo esorta i presenti a non fumare, per non rovinare la voce di Daltrey e a dedicarsi magari ad una buona fetta di torta allucinogena: messaggio recepito alla perfezione, considerato il numero di persone che vagano nel parterre alla ricerca della felicità e la potenza intatta delle corse vocali di Daltrey. Roger è semplicemente sconvolgente: fisico da culturista, voce che perde un colpo nemmeno quando i brani lo costringono ad osare più di quello che la sue età potrebbe permettergli e una sensualità rimasta intatta nonostante una pettinatura improponibile. È chiaro che gli anni degli abusi siano lontani anni luce: riuscire a mantenere una voce del genere significa condurre una vita fatta di pochissime concessioni e, molto probabilmente, tutte rivolte al genere femminile. Di contro, al suo fianco, nel fisico Townshend mostra tutti i segni dell’età, in una dicotomia che ricorda un po’ quella tra Mick Love e Brian Wilson ai tempi del tour del cinquantesimo anniversario dei Beach Boys. Il paragone regge anche dal punto di vista artistico, visto che Pete è l’autore di tutti i brani della setlist, ma non da quello sentimentale, visto l’amore reciproco che i due mostrano nel corso di tutta la serata. Lo spirito di Townshend, da sempre segnato da incubi e voglia di rivalsa nei confronti di un mondo percepito come ostile per lunga parte della propria vita, è invece immutato, anche se la rabbia ha lasciato un po’ di spazio ad una pace interiore più che evidente. Il classico braccio roteato per ore, i salti appena accennati ma in grado di scatenare l’inferno nel parterre, oltre ad una voce caratteristica quanto quella del compagno hanno fatto il resto. Talvolta, su brani che più di altri riescono ancora a smuovergli l’animo, i suoi occhi tristi diventano di colpo laceranti: una sensazione che dura pochi secondi, ma che ricorda a tutti quanta sofferenza si nasconda dietro ad una delle figure più complesse e tormentate della storia della musica popolare. La band che accompagna i due eroi di Woodstock è altrettanto spaventosa: Pino Palladino non ha bisogno di presentazioni, basta andarsi a leggere il suo infinito curriculum; Simon Townshend, alla chitarra ritmica, che affianca a anche Roger nei suoi tour in solitaria, è ormai una sicurezza da anni e il figlio di Ringo, colui al quale tocca ogni sera il compito più difficile, è al solito un mostro di bravura nel ruolo che fu di quel folle di Keith Moon. I punti più alti dello show? Impresa davvero ardua, anche se la selezione di brani tratti da Who’s Next, la straziante versione di Love Reign Over Me e, in generale, tutti i brani tratti da Quadrophenia, sono sembrati quelli più sentiti da band e pubblico. Una delle cose più emozionanti mai passate nel nostro paese.