A un anno esatto dall’uscita del primo capitolo della trilogia fantapolitica con cui l’ex Queensrÿche Geoff Tate si era ripresentato al mondo, ci ritroviamo tra le mani la sezione centrale dell’opera che, se da una parte aiuta a comprendere meglio l’opera, dall’altra pone ancora più domande all’ascoltatore. In attesa di poter ascoltare il tassello finale, abbiamo avuto la possibilità di parlare col mastermind di un concept degno della sua storia.
Con The Key avevi tratto spunto da una realtà spesso più sorprendente della più fervida delle fantasie, ma lasciando aperti diversi quesiti circa l’esito della storia. Resurrection è meno criptico in questo senso.
“Probabilmente dipende dalle orecchie dell’ascoltatore e da quanto abbia compreso della prima parte dell’opera. Sono il primo ad ammettere che spesso le mie idee siano così multi sfaccettate da richiedere molta attenzione da parte di chi ascolta. Questo perché voglio che la mia musica non sia un semplice sottofondo, ma una cosa a cui dedicarsi completamente,perché questa è sempre stata la mia idea di musica. Non intendo dire che per avere un senso un album debba essere molto complicato, ma che una buona storia sia la base di tutto, soprattutto in un concept ambizioso come questo. Qualcuno, ad ogni modo, mi ha persino detto che Resurrection sia ancora più complicato di The Key, giusto per dirti quanto sia soggettiva la cosa. Comunque sì, anche secondo me ora l’opera inizia a dipanarsi per quella che è nel suo insieme e non vedo l’ora di pubblicare l’ultima parte per sciogliere ogni dubbio circa la fine della storia.”
La storia in sé non è semplicissima, anche perché tratta di temi spesso poco abusati in ambito musicale. Quando è nata?
“Ho la fortuna di non riuscire mai a trovare pace dal punto di vista creativo e della scrittura. Purtroppo, la fine della mia avventura con la mia vecchia band (non la nomina, ndr) si portò dietro una serie di strascichi pesantissimi, che mi condussero alla pubblicazione di un album (Frequency Unknown, ndr) che confuse un po’ i miei fan, visto che nel giro di poco tempo uscirono due album la cui band portava lo stesso nome, ma composti da persone completamente diverse. Oggi, probabilmente, non lo farei più. Già ai tempi di quel disco avevo ben in testa questo concept, che era nato nei primi mesi del 2013, ma necessitava di molto lavoro per vedere la luce, quindi lo accantonai per lavorarci in seguito. Sì, la storia non è semplice, me ne sono reso conto fin dal principio, ma era così intrigante e riempì completamente la mia testa da non poter far altro che cercare di metterla in musica e, potrai capirlo facilmente, non poteva che diventare un opera di queste dimensioni.”
L’idea di un concept basato sulla finanza non poteva che nascere a Singapore…
“Si tratta di una storia internazionale, ambientata in moltissimi luoghi del mondo e che ha a che fare con aspetti cruciali della nostra società, come la finanza creativa, la moneta virtuale e altre cose legate alla follia dell’economia che ci circonda e che condiziona completamente le nostre vite senza che ce ne rendiamo davvero conto. Probabilmente non avrei potuto trarre ispirazione migliore che da Singapore, da sempre uno dei centri nevralgici dell’economia mondiale. Se ci pensi, è il terso o quarto centro finanziario del mondo e uno dei più densamente popolati dopo il Principato di Monaco, guarda caso. Nemmeno possiamo immaginare le dinamiche dietro a luoghi di quel tipo, dopo la maggior parte della popolazione è composta da milionari i cui interessi spostano l’economia di interi stati.
Hai già completato anche l’ultimo capitolo?
“Diciamo che il concept, considerato come l’idea di fondo di tutta l’opera, era già concluso all’inizio della registrazione del primo capitolo. Non sono come quegli sceneggiatori di serie tv che spesso vanno un po’ a braccio tra una stagione e la successiva: io avevo già ben in mente da dove partivo e dove volevo arrivare, quindi da questo punto di vista mi sono limitato solo a gonfiare un po’ la storia, ma la base è rimasta sempre quella. In ogni caso, anche le tracce del prossimo capitolo sono quasi tutte concluse, ci prendiamo solo tutto il tempo che ci serve per ultimarle e capire se manca qualcosa all’opera per essere perfettamente comprensibile. Non abbiamo fretta, visto che siamo già messi molto bene e in questo momento possiamo quindi dedicarci alla promozione di Resurrection. Pensa che inizialmente l’idea era quella di pubblicare tutta l’opera in una sola volta, ma giustamente sembrò un’idea troppo estrema e, fondamentalmente, completamente anti commerciale.”
La tua vena progressive è più presente che mai in Resurrection. Credi che in futuro ti muoverai solo su questi lidi?
Sono sempre stato e sono ancora oggi un grande amante del vecchio progressive, quello degli anni settanta per intenderci e credo ci siano ancora molte vie segnate e non ancora sviluppate del tutto. Quello è stato un periodo storico così florido per così tanti generi musicali che credo si potrà trarne ispirazione ancora per diversi decenni. Se in The Key, talvolta, mi ero dato qualche limite in questo senso, stavolta non mi sono preoccupato della cosa e ho creato alcuni dei brani progressive più incisivi della mia carriera. Nonostante sia forse l’album più vario della mia carriera, Resurrection è permeato da sonorità assolutamente progressive. Basti pensare a due brani come When All Falls Away, che è uno dei miei preferiti del disco, ma soprattutto a Into The Hands Of The World, che credo possieda tutto quello che un brano prog deve avere per me: un riff feroce, una melodia vocale di un certo tipo e cambi di tempo continui. È il brano che meglio rispecchia lo spirito della band in questo momento.”
Credi che la voglia di rischiare o meno, giunti ad una certa età, sia più un discorso di ispirazione o di timore del mercato odierno?
“Credo che la cosa riguardi sempre il lato artistico del gruppo o del soggetto di cui si parla. È chiaro che un’opera come questa, divisa in tre album, non sia una cosa per la quale magari una casa discografica può fare salti di gioia, però allo stesso tempo ti mostra che il tuo artista abbia ancora qualcosa da dire. In prospettiva, dunque, si tratta di un investimento forse migliore. Ad ogni modo, non credo che un musicista vada giudicato bene o male a seconda delle scelte artistiche che fa, perché così facendo si rischia di banalizzare un lavoro che magari è durato mesi e mesi ed è frutto di un lavoro che va al di là della semplice struttura di un brano. È stupido dire: questa è arte perché è complicata, oppure è merda perché ha solo pezzi da tre accordi. Io ho sempre amato il rischio, ma perché fa parte della mia personalità, non è un vezzo. Onestamente, credo che le regole di mercato non interessino più molti artisti della mia età, sarebbe anacronistico.”
Quindi il futuro della tua musica è già scritto?
“Per certi versi sì, nel senso che non mi metterò probabilmente a fare musica elettronica a sessant’anni. Tuttavia, chi conosce bene la mia storia sa che sono sempre stato molto attento a non ripetere una formula all’infinito, anche quelle che mi avevano dato le soddisfazioni maggiori. Ho provato a dare un seguito a Operation: Mindcrime qualche anno fa e sono stato molto criticato da una parte di stampa proprio perché non si aspettava una cosa del genere da me. Non mi pongo limiti, ho sempre tenuto occhi e orecchie ben aperti al mondo che mi circonda e ho sempre cercato di espandere i confini della mia musica, andando anche incontro a delle critiche. Credo che in molti, per esempio, non abbiano ancora colto il valore di un disco come American Soldier, ma me ne sono fatto una ragione alla fine. I miei album sono per persone dalla mente davvero aperta.”