Ci sono concerti cui puoi decidere di non partecipare senza che i rimorsi ti divorino dentro per anni, poi ne esiste un’altra specie: quelli da non mancare per nulla al mondo. Chiunque abbia assistito nel corso della propria vita ad un concerto di Neil Young sa benissimo di cosa stiamo parlando. La data milanese del suo mini tour italiano ha confermato ancora una volta che, in qualsiasi veste si presenti l’autore di Rockin’ In A Free World, ci sono poche cose al mondo in grado di eguagliarlo in quanto ad intensità ed emozione. Ecco il report della serata.
Osservi Neil Young salire sul palco, dirigersi al pianoforte e intonare After The Gold Rush e, in pochi secondi, ti passa davanti agli occhi una buona fetta di storia della musica popolare del ‘900. Non è raccomandabile cercare di spiegare al prossimo cosa abbia rappresentato il cantautore canadese per chiunque si sia messo a fare musica dai primi anni settanta ad oggi, né tanto meno provare a spiegarne la filosofia musicale: ci hanno provato in molti e in molti hanno inevitabilmente fallito. Altrettanto difficile, ma meno arduo, è raccontare tutto quello che un suo concerto riesca ancora oggi a suscitare in un pubblico capace di seguirne tutti i cambi di rotta di una carriera infinita e totalmente eterogenea. L’ultima tappa del suo mini tour italiano in compagnia dei Promise Of The Real, come da copione, è un successo senza se e senza ma: il Market Sound di Milano esplode infatti di appassionati giunti da tutto l’interland per assistere a quello che, dai report dei concerti degli ultimi giorni, pare essere il vero concerto da non mancare per nulla al mondo dell’estate italiana 2016. Sì, più di Bruce Springsteen. Al di là dell’elemento bucolico ambientalista, vero fil rouge del tour e del recente album Earth, lo show è strutturato secondo uno schema caro a Young: inizio da solo, accompagnato da organo, piano, chitarra acustica e armonica, seconda parte (semi) acustica e finale elettrico, per un climax ascendente che porta il pubblico a scaldarsi poco alla volta con lo scorrere dei brani. Ognuna delle sezioni del concerto tocca corde differenti nell’ascoltatore: l’incipit intimista permette di emozionarsi anche solo per le inflessioni della voce di Neil, commovente anche quando cede e lascia spazio a quella drammaticità che solo tre o quattro altri artisti al mondo sono in grado di portarsi dietro. Nonostante l’età, il mostro non ha mai abbandonato l’animo del canadese: l’esecuzione di The Needle And The Damage Done, uno dei suoi classici assoluti dal vivo, scalda ancora il cuore come se l’amico Danny Whitten fosse scomparso da pochi giorni, così come la splendida Mother Earth, vera e propria invocazione che, di fatto, dà in qualche modo via alla serata. Poco dopo sale infatti sul palco il gruppo, la cui giovinezza stride con l’aspetto di Young solo fino a quando partono le note di From Hank To Hendrix, brano semi acustico che farà da spartiacque tra le prime due fasi della serata: in pochi secondi, la differenza d’età viene cancellata da un’attitudine che puzza di anni settanta quanto gli stivali indossati dal loro mentore. Nonostante la setlist vari in modo sostanziale ogni sera, la parte centrale dello show resta sostanzialmente invariata rispetto alle ultime date, con la sorpresa della sempre emozionante Comes A Time, ancora non eseguita nel corso delle serate nel nostro paese. Visto che sappiamo tutti quanto sia meglio bruciare che spegnersi lentamente, il clima inizia a surriscaldarsi non appena il nostro imbraccia la sua Les Paul nera per regalare ai presenti un finale elettrico da perforazione dei timpani, nel più classico stile Crazy Horse. Il filotto Words (Beetween The Lines Of Age), Powderfinger, Cowgirl In The Sand e Mansion On The Hill è di quelli da raccontare ai nipoti, con una band completamente invasata che perde il contatto con la realtà e la misura del tempo. Una delle cose più smaccatamente rock ‘n’ roll passata in Italia negli ultimi cinque anni. La carrellata continua senza sosta, distanziandosi molto dalla scaletta di Roma e Lucca e concludendosi con una versione fiume (nemmeno a dirlo) di Rockin’ In A Free World, vero anthem in grado di far muovere il culo anche a chi era stato tutta sera ad attendere un brano da greatest hits. Un piccola menzione per Seed Justice, una delle gemme di questo tour e istant classic tirato fuori dal cilindro di un artista che, quando ispirato da temi cui tiene davvero, è ancora in grado di creare brani che non sfigurano col suo ingombrante passato. Il ritorno sul palco per l’unico encore è ancora in compagnia di Willie Nelson, già presente nella sezione centrale con gli stessi brani suonati negli ultimi concerti, e si trasforma in qualcosa a metà tra il serio e il faceto, con la band (Neil in primis) che rende ironicamente omaggio ad una vera leggenda del country mondiale. Difficile trovare qualcosa di più intenso in giro di questi tempi.