A breve potremo ammirarlo nuovamente nel nostro paese, per una serie di concerti che si annuncia, al solito, impeccabile e ricca di emozioni (13 luglio Piazzola sul Brenta, 15 Roma, 16 Lucca, 18 Milano). Non tutti però sanno come andarono le cose la prima volta in cui Neil Young mise piede sul suolo italico. Noi abbiamo provato a raccontarlo…
Se gli anni Settanta, seppur costellati da cadute fragorose e da altrettanto clamorose rinascite, avevano visto il nome di Neil Young apparire sulla stampa di settore più di qualsiasi altro artista contemporaneo, il decennio successivo non iniziò certo nel migliore dei modi per l’autore di Hey Hey, My My. La nascita di un figlio con un grave handicap l’aveva costretto ad assemblare album in fretta e furia pur di guadagnare il necessario per le costosissime cure sanitarie necessarie al sostentamento del figlio. Inoltre, i primi due album del decennio (Hawks & Doves e Re-Ac-Tor) erano stati stroncati da pubblico e critica e la sua storica casa discografica, la Reprise, iniziava a dare segni di scontento. Fu allora che David Geffen, impresario con più soldi che visione musicale che stava cercando di portare nel suo roster tutti i big della discografia mondiale, tentò di accaparrarsi anche colui che il Village Voice, solo due anni prima, aveva definito l’artista più influente dei Seventies.
Young si mise così a lavorare ad un ideale seguito del celeberrimo Harvest, il suo best seller uscito nel 1971: stesse sonorità e medesima band. Realizzato l’album in pochissime settimane, Neil era convinto che la sua nuova casa discografica sarebbe stata orgogliosa del prodotto. Geffen, tuttavia, non apprezzò i brani proposti dal cantautore, dicendogli che avrebbe dovuto osare di più e che non suonavano per niente “come qualcosa prodotto da Neil Young”. “Sentirmi dire da una massa di coglioni che la mia musica suonava come quella di un altro mi fece completamente perdere la testa” ammise poi il musicista. “Quindi gli feci vedere cosa significava osare”. Il risultato fu Trans, uno degli album più destabilizzanti dell’intera storia del rock: ritmi ipnotici, campionature, voce modificata e una sola canzone che ricordasse la sua vecchia produzione, quasi a prendere sonoramente per il culo il suo boss. Consegnato ai discografici appena prima della data di pubblicazione, Trans venne dato alle stampe contro il volere di Geffen: rimandarlo ancora, ormai, voleva dire perdere un mare di soldi. Anche il tour era ormai stato messo in piedi, quindi impossibile fermare una macchina del genere.
Lo show era curato nei minimi dettagli, con un palco tra i più costosi che si ricordassero e una serie spaventosa di computer e macchinari delicatissimi necessari per modificare la celebre voce del canadese. Tre dei cinque concerti previsti in Italia saltarono perché un temporale rovinò proprio tutta quella serie di diavolerie elettroniche. Solo a Viareggio e Roma riuscirono ad assistere a quello spettacolo straniante, che spesso sfociava in grida e fischi: Neil Young vestito da Yuppie che cantava con una voce filtrata in un tripudio di suoni elettronici. Anni dopo, lo stesso Young, che nel periodo alla Geffen in pratica non rilasciò interviste, fece un po’ più di luce su quella svolta: “Rivedendo quei concerti e riascoltando Trans, mi rendo conto che quelle voci meccaniche avevano a che fare con i miei tentativi di comunicare con una persona portatrice di un gravissimo handicap cognitivo. Tutti hanno frainteso quel periodo, dicendo che mi ero divertito a giochicchiare con cose in cui non dovevo immischiarmi. Mi hanno ferito, era il mio bambino”. A saperlo, forse i suoi fan italiani si sarebbe arrabbiati un po’ meno.