Alla fine degli anni settanta, quando a uno come Michael Jackson servivano le indicazioni di Quincy Jones per dare alla luce quel capolavoro che fu Off The Wall, sull’album d’esordio per la Warner di Prince Rogers Nelson campeggiava già la celebre dicitura “Written, composed, performed, and recorded by Prince”: cose dell’altro mondo. Spesso, parlando di lui, si faceva proprio riferimento ad altri pianeti, ma erano riferimenti dissimili da quelli che venivano fatti per David Bowie o altri artisti affascinati da tematiche legate allo spazio: semplicemente ciò che faceva sembrava così alieno da poter provenire solo da mondi sconosciuti ai più. Nessuno ha tenuto l’asticella così alta per così tanto tempo e con quella qualità, quantomeno fino alla fine degli anni novanta. Se si escludono una manciata d’anni, infatti, dal ’78 al ’99 Prince è stato in grado di produrre un album all’anno di livello assoluto e i continui paragoni con Jacko, in grado di vendere con un solo album l’equivalente della somma dei suoi lavori, beh un po’ devono avergli bruciato. Visto come la faccia cattiva di Jackson, che ancora non aveva subito i noti processi per pedofilia del decennio successivo, Prince in realtà non rappresentava un’antitesi del Re del Pop, ma al massimo un’altra faccia della stessa medaglia. Anche lui proveniente dalla nuova scena black americana e veicolo naturale di certe sonorità alla massa bianca, ma fortemente ammaliato dal nuovo pop e dal chitarrismo di Jimi Hendrix e Frank Zappa, Prince fu senza dubbio uno dei perni musicali della decade degli Yuppies, in grado come nessuno di spaziare dal funky al rock classico, passando per Rap e Pop e di anticipare decine di trend. Se già alla fine dei seventies l’artista di Minneapolis aveva fatto parlare di sé per essere diventato a vent’anni il più giovane produttore di sempre e per i continui paragoni con Stevie Wonder, fu solo nel corso degli anni ottanta che la sua creatività esplose letteralmente e gli permise di scalare i vertici delle classifiche col suo album simbolo, Purple Rain. Dopo il fallimento del debutto autoprodotto e costato alla Warner centottantamila dollari, con i primi album del nuovo decennio Prince cambia radicalmente registro, passando dai pantaloni a zampa d’elefante ad un crossover spesso difficile da comprendere per il pubblico dell’epoca, che mischiava soluzioni musicali infinite e i cui testi inneggiavano a perversioni sessuali, storie al limite e incredibili invenzioni circa la propria autobiografia. Dirty Mind, ma soprattutto 1999 spaccarono in due l’opinione pubblica e diedero vita a quel sound di Minneapolis di cui lo stesso Prince fu inventore e portabandiera. Frank Zappa, James Brown, ma anche i nomi della contemporanea New Wave: nessuno fino ad allora aveva osato così tanto in musica e non è un caso che il primo grande fan di Prince sia stato un altro genio assoluto del ‘900, Miles Davis. Quando, nel 1984, uscì al cinema Purple Rain, a livello cinematografico poco più che un musicarello con Gianni Morandi protagonista, la vita del principino nero cambiò per sempre: raggiunse infatti contemporaneamente la prima posizione nelle classifiche dei singoli, degli album e dei film, come solo i Beatles erano riusciti a fare prima di lui. Il film, capace di guadagnare solo in America ottanta milioni di dollari, vinse addirittura il premio Oscar per la colonna sonora, senza contare il Golden Globe ottenuto per When Doves Cry e gli oltre quattordici milioni di album venduti solo negli States: insomma, uno dei quattro o cinque album più rappresentativi di un’intera epoca. Furono molti i fattori che contribuirono a trasformare Prince da autore e musicista stimato in superstar: intanto, dopo anni passati a lavorare da solo in studio, permise alla sua band, i The Revolution di partecipare attivamente alle registrazioni. Inoltre, ancora una volta il musicista decise di virare verso soluzioni inedite per lui, spesso più vicine al rock classico, condito da ballate struggenti e di classe ma di facile presa, splendidi assoli e i suoi ormai celebri riferimenti sessuali. Come e forse più del “rivale” Jackson, con Purple Rain Prince era riuscito nell’impresa di fondere due mondi fino a lì opposti come il rock bianco e la black identity, creando un ibrido completamente inedito venato di funky e R&B, ma anche melodie e tecnicismi tipici di un certo white rock. E senza dover cambiare colore della pelle. Il gusto per la provocazione, al pari del chitarrismo sfrenato furono i motivi principali per cui molto spesso Prince e Frank Zappa vennero accostati, ma non gli unici. I testi a sfondo sessuale erano sempre stati uno dei cavalli di battaglia principali di Zappa, che accolse con grande simpatia Darling Nikki, presente proprio su Purple Rain. Il brano, che parlava di una sorta di ninfomane sempre pronta per il sesso (e intenta nel testo a masturbarsi) piacque molto meno a Tipper Gore, moglie del futuro vicepresidente Al Gore, e la spinse a dare vita al famigerato P.M.R.C., quel comitato che chiedeva un maggiore controllo sui testi spinti o ritenuti scabrosi all’interno di un album. Controllo che, da lì in avanti, minerà per sempre la libertà di parola degli artisti americani. Insomma, se Madonna provocava sterilmente l’opinione pubblica, Prince la modificava a livello culturale.
Al di là delle migliaia di brani appena ritrovati nella sua cassaforte blindata, ennesimo colpo di teatro che gli permetterà di vivere per altri cent’anni, di Prince resta soprattutto questo: senza sovraesposizioni, senza una presenza mediatica costante e molesta, è riuscito ad insinuarsi sotto la pelle anche di chi non pensava di avergli dedicato molto tempo e, invece, si ritrova inconsolabile a piangerne la morte.
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