Difficile passino tre mesi senza che Neal Morse dia alle stampe un nuovo lavoro, sia esso un disco solista o con una delle sue varie band. Questa volta è il turno degli Spock’s Beard e di The Oblivion Particle, uscito pochi mesi fa. Scopriamone la genesi proprio insieme allo stesso Morse.
Insomma, per farti riuscire a staccare un po’ dal lavoro dovrebbe scoppiare un nuovo conflitto mondiale: dove trovi le energie e l’ispirazione per riuscire sempre a stupire i tuoi fan?
“Forse il mio segreto è quello di avere lo stesso entusiasmo di quando ero un bambino e di trovare interessanti anche cose che per i comuni mortali sarebbero insignificanti. Quello sicuramente è il motivo per cui non riesco mai a stare fermo: appena pubblico un album sto già pensando a quello successivo, ai musicisti da coinvolgere e al mood che voglio che abbia. Come ti dicevo, l’ispirazione mi viene dalle cose più svariate, ma in particolare dal mio lato spirituale, che è forse il più grande motore del mio songwriting e che non smette di darmi input. Il resto, in genere, lo fanno i miei compagni d’avventura, da cui mi faccio guidare e a cui non impongo mai il mio pensiero.”
Be’, in questo senso diciamo che ti piace vincere facile…
“(Ride, ndr) In effetti so scegliere bene i musicisti con cui registrare un disco! In particolare ormai il mio rapporto con Mike Portnoy è qualcosa che va oltre il semplice aspetto lavorativo, tanto che quando compongo nuova musica la immagino sempre accompagnata dal suo drumming: spero davvero che sia sempre libero quando ne ho bisogno! Posso anche concepire di aspettare mesi per lavorare con lui, visto che entrambi abbiamo più progetti che ore in un giorno e magari ci metteremo un po’ a ritrovarci nello stesso momento con il tempo per suonare insieme, ma prima o poi, come vedi, accade. È qualcosa di che non possiamo interrompere più.”
Hai sempre avuto grossa facilità nel comporre nuova musica, tanto per la band quanto per la tua carriera solista. Quanto cambia il tuo approccio al processo di songwriting a seconda del progetto per cui ti metti a scrivere?
Per molti artisti non fa alcuna differenza scrivere brani per un disco solista o per uno della propria band, mentre io mi comporto in modo diametralmente opposto: sono quasi schizofrenico in questo senso, come se avessi due personalità ben distinte. So sempre quando sto scrivendo un brano per un mio progetto solista, altrimenti che senso avrebbe averne uno? Non ho mai pensato a cosa il pubblico vuole da me, ho sempre ritenuto giusto fare solo quello che ho voglia di fare, senza assecondare nessuno. La gente che ha amato i miei primi lavori lo ha fatto senza sapere cosa aspettarsi da me, quindi credo che un artista debba solo seguire il proprio istinto, perché il rischio di diventare ruffiani è dietro l’angolo.”
The Oblivion Particle è un disco che risente delle anime di ognuno dei musicisti coinvolti, tuttavia mi sembra che via siate spinti un po’ oltre i vostri confini, per lo meno quelli che abbiamo conosciuto fino ad ora. Ve ne siete resi conto mentre eravate in studio?
“Sono completamente innamorato di quest’album, lo adoro davvero. Credo che il fatto di aver avuto così libertà compositiva abbia dato un’energia inedita sia a me che al gruppo, soprattutto in termini di affiatamento. Dal vivo è molto più facile improvvisare, anche perché le menti sono più libere e non vincolate dall’idea di dover concepire un brano che funzioni anche in studio. Per quello è più facile dare il meglio di noi onstage. In studio la cosa è molto differente: per conoscere il modus operandi dei tuoi compagni devi condividere tutto con loro, non basta inviarsi dei brani via internet e aspettare che ogni musicista lo rimandi con le proprie parti suonate. Bisogna viversi.”
Credi che, a livello compositivo, la libertà di cui parli ti abbia fatto crescere come musicista?
“Sicuramente, come d’altra parte mi capita ogni volta in cui mi confronto con uomini e musicisti di questo calibro. Ci siamo spinti verso territori che nessuno di noi aveva mai toccato prima, nemmeno in altri progetti passati. Ti parlo per me, ma credo di poter dire che nessuno di noi dimenticherà facilmente le session del disco: avevamo la sensazione di plasmare secondo per secondo la nostra musica, senza che nessuno ci desse imput o senza dictat da nessun discografico. Creatività pura, insomma. Siamo cresciuti come musicisti, ma credo che il vero salto te lo faccia sempre fare l’umanità di chi suona”.