Con ancora nelle orecchie lo splendido Hand. Cannot. Erase. e in attesa del suo successore, ecco che ci ritroviamo tra le mani 4 ½, una nuova pubblicazione di Steven Wilson composta da brani lasciati fuori dagli ultimi dischi da studio. Tanto pacato, quanto disponibile, Wilson ha fatto una chiacchierata con noi sul suo momento attuale.
La tua fama di instancabile non vede cedimenti di sorta. Hand. Cannot. Erase. ha incantato ed è stato accolto benissimo, 4 ½ da dove proviene?
“Alla fine delle session che hanno portato alla nascita di Hand. Cannot. Erase. ho compreso che alcuni brani cui stavo lavorando per l’album non mi convincevano pienamente e non perché non li ritenessi buoni, ma perché semplicemente c’era qualcosa che non li rendeva adatti per il disco. Non so spiegarti bene a parole: a volte ci sono canzoni molto belle o che per te significano molto, ma che per qualche motivo tieni fuori da quello che stai per pubblicare. A volte non si sposano col mood del disco, altre volte magari sì, ma sono troppo lunghe e andrebbero a modificarne inevitabilmente la struttura. Poi, come vedi, ho ripreso un brano dei Porcupine Tree e uno lasciato fuori da The Raven That Refuse To Sing. Il titolo fa riferimento al fatto che Hand. Cannot. Erase fosse il mio quarto disco e questo l’Ep che precede il quinto, quindi quale titolo migliore di 4 ½?”
Sai com’è, spesso operazioni come queste vengono viste nel modo sbagliato, magari come espedienti per tenere caldo il mercato con qualche inedito trovato negli archivi…
“Infatti sono ormai diversi anni che conosco l’ambiente dall’interno e quando ancora ero un semplice fruitore musicale anche a me è capitato spesso di pensarlo. Questo è stato l’unico motivo che per qualche momento mi ha fatto pensare se pubblicare o meno il disco. Poi mi sono detto: ma perché devo farmi condizionare da questa cosa? Ho dei brani in cui ho creduto moltissimo, che rispecchiano una parte di me davvero importante e che credo vadano in qualche modo a concludere un discorso che per me non era completamente finito. Quindi ho agito seguendo le mie sensazioni e non i pregiudizi che anche io potevo avere sull’argomento. Ormai brani dagli archivi è una frase diventata sinonimo di scarti inutili: forse è meglio fermarsi a ascoltare quelle canzoni e poi giudicarle, ho imparato che è sempre la via migliore.”
In effetti, basta l’ascolto dell’opener My Book Of Regrets per capire bene quello di cui parlo. Quale il motivo dietro la sua esclusione?
“Questo è il brano per cui vale di più il discorso che stavamo facendo. Gli mancava sempre qualcosa, pur essendo sostanzialmente pronta da tempo. Non riuscivo mai a dedicarle lo spazio che avrei voluto, che avrebbe meritato, proprio perché capivo che non si trattava di un brano che avrei potuto abbandonare con leggerezza, né tanto meno pubblicare monco. L’album era già molto lungo e io ho un’idea ben precisa di quanto debba durare un disco prima di annoiare, quindi un brano di dieci minuti sarebbe stato comunque inconciliabile con Hand. Cannot. Erase.. Ho deciso quindi che ci avrei messo nuovamente le mani una volta concluso il tour e con un approccio finalmente diverso: era un brano che necessitava di tempo solo per lui, come una creatura e prima era impossibile farlo. Col senno di poi, ascoltando quello che è diventato con le aggiunte fatte in studio, posso dire che dedicargli quel tempo era l’unica cosa da fare per farlo diventare un grande pezzo. Alcune parti derivano da registrazioni live del pezzo.”
La cosa è avvenuta anche per la nuova versione di Don’t Hate Me. Ti affascina l’idea di utilizzare parti live in studio? Frank Zappa ha composto decine di brani in quel modo.
“Oh sì, per Frank Zappa era uno dei principali metodi di registrazione delle sue canzoni. È pazzesco, perché se non lo sai è davvero impossibile capire quando una parte sia stata registrata in studio o ripescata dal mixer di un concerto. Sì, effettivamente la cosa sta iniziando ad affascinarmi molto, perché ho la sensazione che il brano acquisisca un’umanità, un’anima se vogliamo, che spesso in studio non riesce ad uscire. Mi sto divertendo a sperimentare un po’ con questa nuova via e devo dire che i risultati mi stanno spronando a continuare su quella strada, anche se non credo che possa diventare il mio metodo di scrittura usuale. Non mi sento tuttavia di escluderlo, visto che se penso a come lavoravo e a come concepivo la forma canzone anni fa e a come faccio oggi, mi rendo conto che tutto evolve con una velocità pazzesca. Ad ogni modo, questi due brani e Lazarus, quelli su cui ho fatto questo tipo di lavoro, mi soddisfano moltissimo.”
Gli addetti ai lavori continuano a definirti un musicista prog, anche se è sempre più evidente la tua estraneità a qualcosa di definito. Hai fatto pace con le tue mille anime?
“Ma sai, come lasci intendere con la domanda, il primo che talvolta non sapeva come definire la propria musica sono stato io. Al di là del classico discorso sulla stupidità delle etichette, è anche vero che tu in modo naturale finisci per infilarti in una strada già percorsa in qualche modo da qualcuno, spesso da musicisti con cui tu sei cresciuto. Per quanto mi riguarda, il discorso del progressive mi ha sempre fatto un po’ ridere: amo molto il termine e mi ci riconosco, ma perché è una è una parola che esprime molto bene quello che sono, un musicista che cerca di progredire in continuazione, di non rimanere mai fermo su idee precise e che vuole spingere i propri limiti sempre più avanti. Ciò non vuol dire che i miei brani debbano diventare sempre più complessi per progredire, non so se riesco a spiegarmi. Non è una questione di tecnica, ma sempre di istinto e gusto. Delle due anzi, il mio progredire spesso è combaciato col fatto di accettare parti di me che rifiutavo, come quelle più tradizionali.”
In effetti, sembra che la tua vena più pop, che spesso hai sotterrato, ultimamente stia ricominciando ad uscire. Ti stai sforzando di farlo?
“Questo è uno dei punti in cui mi sono evoluto di più negli ultimi anni e non faccio fatica a dirlo. Ho finalmente capito e accettato che in me risiede anche una forte anima pop o, appunto, più tradizionale dal punto di vista della composizione dei brani. Nel tempo, spesso, quando intuizioni più melodiche o strutture di brani più semplici mi venivano alla testa, tendevo a mandarle via. Mi sembrava che semplice dovesse combaciare per forza di cose con banale, mentre anche grazie al lavoro di persone che mi hanno affiancato negli anni ho capito che sbagliavo. Evidentemente ho una parte di me così e molto probabilmente è anche una delle cose che fa apprezzare la mia musica alla gente. Allo stesso modo, in me convivono tutte le anime di cui parlavi, ma con loro non ho mai litigato (ride, ndr).”
E il tuo lavoro di “restauratore” di discografie altrui come procede? Penso ti permetta di saziare la tua mania per il suono…
“Quella è una delle parti della mia vita che mi dà più soddisfazione, perché mi permette di mettere mano ad alcuni album, e spesso ad intere discografie, di band che ho sempre amato. Molti sono convinti che il lavoro di missaggio sia una cosa pressoché inutile o comunque che non ha alcuna incidenza sul risultato finale. Mi sto battendo da anni per questa cosa, perché invece è palesemente vero il contrario e se fossimo in uno studio di registrazione potrei mostrartelo in pochissimi minuti. È stupido avere a disposizione certe cose e non utilizzarle, per quello sono così intransigente sull’argomento. Tra l’altro, l’unico settore al mondo in crescita è quello degli audiofili, quindi credo sia una cosa cui dare peso.”