Se fino a qualche anno fa qualcuno poteva ancora pensare che i Black Keys non fossero il duo rock blues più famoso al mondo, dopo lo straordinario successo de Il Camino ogni dubbio venne fugato in maniera definitiva. Il disco di Lonely Boy e Gold On The Ceiling fu infatti la classica chiave di volta di una band che per dieci anni aveva lavorato per lo più nell’ombra con grande coerenza e versando litri di sudore, ma per la quale il momento dell’esplosione a livello mondiale non era ancora arrivato. Come spesso avviene nella vita, però, seminare a lungo e bene, unito ad un pizzico di fortuna, può portare nel giro di un paio d’anni dal suonare in club prestigiosi ma da poche centinaia di persone, alle più grandi arene mondiali. Per alcuni, compreso l’istrionico Jack White, il duo di Akron nemmeno esisterebbe senza il lavoro fatto negli anni precedenti proprio dai White Stripes e per altri ancora il successo è giunto grazie ad uno dei loro album più ruffiani e meno ispirati della carriera: pur contenendo un fondo di verità, entrambe le affermazioni sono comunque riduttive e non rendono giustizia alle grandi qualità di una band che non si può certo ridurre a semplice copia sbiadita degli ex coniugi White. Se è forse vero che il precedente Brothers resti il vero capolavoro del gruppo, va detto che le critiche piovute a posteriori sulla “facilità” generale di El Camino sembrarono per lo più le classiche sparate da intellighenzia indie, pronta a puntare il fuoco sugli ex pupilli che finalmente erano riusciti ad ottenere il successo invocato a gran voce da anni. Tra le cose che vanno riconosciute al gruppo, per altro, c’è il fatto di non aver voluto minimamente sfruttare il momento propizio pubblicando album fotocopia o che potessero cavalcare l’onda lunga del predecessore e di aver invece aspettato tre anni prima di dare alla luce il successivo Turn Blue. Al di là delle facili considerazioni e delle classiche prese di posizione che da sempre fanno parte della storia del rock, la vera domanda da porsi nei confronti del duo resta la medesima di qualche anno fa: chi sono quindi oggi i Black Keys? E quale delle loro infinite anime vorranno mostrarci nel futuro prossimo? Turn Blue è stato un album che, fin dal titolo, trasmetteva (in)sofferenza e che, proprio come anticipato dai due protagonisti, andava a segnare un po’ una svolta psichedelica. Probabilmente, dopo aver rivoltato e filtrato attraverso la propria sensibilità garage rock, soul e funky, era giunto il momento di confrontarsi più con i Pink Floyd che con i Kinks: diversi dei brani del disco, infatti, sembravano uscire più da Wish You Were Here che da un album di rock revival, con l’iniziale Weight Of Love a rappresentare la migliore delle dichiarazioni d’intenti. Insomma, avranno anche fatto il cosiddetto botto, ma la voglia di sperimentare e stupire il proprio pubblico sembra non essere ancora svanita completamente. È affascinante immaginare quale potrebbe essere il loro futuro, anche se quel che è certo è che non cambierà di un millimetro l’attitudine do it youself dei due ragazzi terribili: “Non abbiamo mai imparato a leggere la musica, né a suonare con perizia i nostri strumenti, ma se cercate l’anima questo è posto giusto per voi”.
Black Keys: The Future Is Unwritten
25 Gennaio 2016
Articoli
Giornalista musicale con esperienza decennale, Luca Garrò scrive o ha scritto per alcune delle riviste musicali più note del nostro paese, da Rolling Stone a Jam, passando per Rockstar, Rocksound, Onstage e Classic Rock, oltre ad essere uno dei fondatori del magazine online Outune.net. Appassionato di classic rock fin dall'infanzia, ha scritto centinaia di articoli sugli argomenti più disparati, tre libri per Hoepli (Freddie Mercury, David Bowie e Jimmy Page & Robert Plant) e sta curando una biografia su Brian May per Tsunami. Per cinque anni è stato tra i curatori del Dizionario del Pop Rock Zanichelli.
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