My City Of Ruins è senza dubbio l’unico brano col quale Bruce Springsteen avrebbe potuto concludere un disco come The Rising. Scritta originariamente per promuovere la rinascita della sua Asbury Park, la stessa di quei Greetings da cui tutto era partito, sprofondata nel degrado ai tempi della Grande Depressione senza mai riuscire a risollevarsi, la canzone assunse un significato solo in parte differente dopo la tragedia dell’undici settembre. Grazie a qualche strofa cambiata per l’occasione e alla commossa dedica ai fratelli e alle sorelle persi durante gli attentati, My City Of Ruins finì per trasformarsi in una sorta di preghiera collettiva, in grado di raccontare allo stesso tempo tanto la fine di una certa America, quella che da inattaccabile si ritrovava di colpo fragile e vulnerabile, quanto il suo nuovo inizio, di cui quella serie di Come On Rise Up cantati con voce possente ma straziata rappresentavano i germi. Nei pochi minuti di un brano, Springsteen era così riuscito a far convivere un po’ tutti gli elementi della sua poetica, ma soprattutto era riuscito a creare un piccolo gioiello che, nato da sentimenti quali rabbia e rassegnazione, si era poi trasformato in un inno universale alla rinascita, ormai avulso dai connotati autobiografici da cui era nato e da quelli quasi nazionalistici in cui si era stato trasformato sull’onda della commozione post undici settembre. Da quella canzone, in qualche modo, ripartiva il percorso di una nazione che ancora non riusciva a comprendere quello che le era appena accaduto, così come, allo stesso tempo, rinasceva anche l’E-Street Band, che tornava in studio al completo a più di quindici anni dall’ultimo album. Proprio in questa coesione di sentimenti opposti sta forse l’unicità di un brano che, senza mai diventare retorico o populista, non fa altro che raccontare la vita, quella serie di cadute e ripartenze nella quale chiunque è in grado a riconoscersi. Proprio come il sottoscritto, che per una serie di circostanze particolari, si ritrovò a legare a Springsteen e a quell’ultimo pezzo una parte importante della propria vita. Non potevo immaginare, infatti, che i giorni successivi al concerto di Bologna, che presentava in anteprima The Rising al nostro paese, sarebbero stati anche gli ultimi che avrei trascorso insieme a mio padre, proprio colui che in tenerissima età mi aveva educato all’amore per la poetica springsteeniana. In quei giorni, quasi come se entrambi avvertissimo qualcosa di più grande di noi, non facemmo altro che ascoltare quel disco, all’infinito, fantasticando sul fatto che l’avremmo rivisto insieme l’estate successiva a San Siro, lo stadio di Bruce Springsteen per antonomasia. Per uno strano scherzo del destino, My City Of Ruins si era così trasformata nell’ultima canzone che avrei mai sentito con mio padre e contemporaneamente nel primo tassello del traumatico passaggio alla vita adulta. Con quella nota ottimistica finale, quell’implorazione alla alla sua città affinché si riprendesse, Springsteen aveva così dato inizio alla mia personalissima rinascita dalle rovine del mio animo.
Springsteen: La Storia Dietro My City Of Ruins
6 Gennaio 2016
Articoli
Giornalista musicale con esperienza decennale, Luca Garrò scrive o ha scritto per alcune delle riviste musicali più note del nostro paese, da Rolling Stone a Jam, passando per Rockstar, Rocksound, Onstage e Classic Rock, oltre ad essere uno dei fondatori del magazine online Outune.net. Appassionato di classic rock fin dall'infanzia, ha scritto centinaia di articoli sugli argomenti più disparati, tre libri per Hoepli (Freddie Mercury, David Bowie e Jimmy Page & Robert Plant) e sta curando una biografia su Brian May per Tsunami. Per cinque anni è stato tra i curatori del Dizionario del Pop Rock Zanichelli.
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