È molto insolito che un chitarrista prolifico e in grado di creare riff immortali come Tony Iommi, durante le lunghe pause dai Black Sabbath abbia creato coì poca musica a proprio nome. Il primo vero album solista risale infatti all’inizio del nuovo millennio, anche se, come tutti sanno, in realtà la carriera in proprio dei baffi più famosi d’Inghilterra iniziò molti anni prima, ai tempi di ‘The Seventh Star’. Con i Sabbath allo sbando totale e un album, ‘Born Again’, che verrà rivalutato negli anni, ma che ai tempi procurò moltissime critiche alla band, Iommi decise che fosse giunto il momento di staccarsi momentaneamente dalla creazione di famiglia, per esplorare nuovi territori. La pressione era giunta a livelli non sostenibili (se non attraverso l’abuso di ogni tipo di sostanza psicotropa) e Iommi ne aveva abbastanza delle troppe dinamiche ormai incancrenitesi: i litigi tra primedonne, le continue uscite di scena di Bill Ward, i confronti con i dischi solisti del Madman Ozzy all’apice della fama, ma soprattutto, un nome diventato ormai troppo grande per essere sorretto dalle sue sole spalle. D’altra parte, pensava Tony, che senso aveva cambiare un cantante ogni album e non avere più nemmeno un altro membro della line up originale? In effetti, nessuno. Il musicista di Birmingham iniziò così a lavorare su riff molto distanti da quelli cui aveva abituato i propri fan e per il ruolo di frontman decise di collaborare con un altro illustre cittadino di Birmingham, Glenn Hughes: dopo la parentesi con Gillan, quindi, un altro ex Purple dietro al microfono. Se però le difficoltà con Gillan nacquero più per distanza artistica che per i suoi problemi con l’alcol, nel caso del bassista le cose andarono molto diversamente: in crisi umana e artistica da diversi anni, Hughes si trovava allo sbando completo dall’alba al tramonto. L’utilizzo di stupefacenti non era certo cosa nuova a casa Iommi, ma a quelle quantità nemmeno Ozzy si era mai avvicinato. “Sarebbe morto da lì a poco, non ci sono dubbi. E in ogni caso non ho mai visto nessuno sopravvivere a quei ritmi. Volevo aiutarlo a livello umano, ma allo stesso tempo c’era in ballo un progetto e il clima in sala di registrazione diventò subito insostenibile”. Glenn si presentava quando voleva in studio e sempre in condizioni precarie, ma nonostante tutto si riuscì a portare a termine la registrazione dell’album. Il fatto che non fosse stato concepito come un album dei Black Sabbath portò i due a soluzioni inedite, che spesso sfociavano nel blues o in ballate struggenti come la celeberrima ‘No Stranger To Love’, ma ai discografici l’idea di abbandonare il moniker parve una follia e si opposero categoricamente alla decisione del chitarrista. Dopo una lotta estenuante, si giunse ad un compromesso ridicolo che scontentò entrambe le parti: ‘The Seventh Star’ sarebbe uscito a nome Black Sabbath Featuring Tony Iommi. La scelta imposta finì per indebolire un album che col passato della band non aveva nulla a che fare e che, nonostante fosse a tutti gli effetti un prodotto molto valido, venne accolto tiepidamente dai fan, che in alcuni casi tornarono a parlare di Deep Sabbath. Come ‘Born Again’, anche ‘The Seventh Star’ verrà rivalutato negli anni, ma nell’immediato vedere Hughes su un palco non poteva essere una buona pubblicità: “Non si reggeva in piedi, era arrivato alla fine e non potevo fare altro che allontanarlo dalla band. Fu doloroso perché era una persona in difficoltà, ma la vita on the road non poteva aiutarlo”. I pochi show prima dell’allontanamento furono i peggiori della carriera del gruppo e a nulla valse il penultimo concerto, che vide Hughes tornare sui livelli di un tempo. Per concludere degnamente il tour fu così ingaggiato Ray Gillen, ottimo e affidabile performer, ma con un terzo del carisma del predecessore. Nonostante l’esperienza traumatica, il destino sembrava però volere che la collaborazione con Hughes dovesse godere di una seconda possibilità. Pur essendo stata disastrosa, l’avventura precedente aveva unito i due a livello umano: Iommi aveva avuto enormi problemi con la droga e non aveva mai puntato il dito contro l’ex Trapeze per la sua dipendenza, cercando anzi di aiutarlo nella sua risalita. Quando nel 1996 i due si ritrovarono, Glenn stava vivendo una nuova giovinezza, fatta di salutismo e ricca di idee. L’amore ci mise poco a rinascere e i due si precipitarono in studio per mettere su nastro i risultati dell’alchimia ritrovata. Senza un motivo preciso, purtroppo, i brani delle session vennero tuttavia accantonati, circolando per anni come bootleg, per poi essere rimasterizzati e pubblicati quasi un decennio dopo. L’anno successivo, in pieno stallo con i Sabbath, ma all’alba delle reunion con Ozzy, Tony pensò di mettere in piedi un progetto che coinvolgesse un altro celebre concittadino: Rob Halford. Il Metal God si trovava in un momento molto delicato e l’incontro con Iommi pareva poter essere un manna dal cielo per entrambi, ma qualcosa andò storto. “Bob Marlette era il produttore della band con cui suonava all’epoca Rob e lui non faceva altro che dirmi quanto fosse bravo e che avremmo dovuto fare qualcosa insieme. Quando mi presentai, Marlette decise di mandare tutto per aria, provando a far sembrare che io mi fossi unito alla band. Rob è una persona splendida ma non abbiamo potuto lavorare insieme perché c’era troppa gente che metteva il becco nella nostra iniziativa”. Insomma, quella del primo album solista sembrava essere una vera e propria maledizione e forse anche per questo il musicista decise di accantonare nuovamente il progetto, per ributtarsi a capofitto nel Sabba Nero, permettendo a due generazioni di rivedere la formazione originale sullo stesso palco dopo trent’anni. Dopo un tour interminabile e due nuovi brani con Ozzy, però, la voglia di viaggiare da solo non aveva ancora abbandonato Tony, che tornò immediatamente a mettere mano alle idee sviluppate qualche anno prima: questa volta le cose andarono per il verso giusto. “Di colpo mi ritrovai circondato da una moltitudine di ottimi cantanti, così fu più facile realizzare l’album che volevo fare da tempo. Quando iniziò a spargersi la voce del mio progetto la gente iniziò a contattarmi in modo autonomo, anche se il mio manager e Sharon Osbourne mi diedero una mano a trovare gente utile al mio scopo. Una volta iniziato a registrare, tutto il resto è stato in discesa. Non ho solo voluto diversi cantanti, ma anche musicisti, così da poter provare diverse versioni di ogni canzone”. Grazie ad artisti così diversi come Skin, Henry Rollins, Brian May o Ian Astbury, il chitarrista riuscì allo stesso tempo a sedare la propria voglia di sperimentazione, mantenendo un profilo elevatissimo agli occhi della stampa e dei fan. La scelta per il titolo ricadde sul suo semplice cognome, quasi fosse una liberazione dopo dieci anni di tentativi andati a vuoto. Nonostante l’apparente disomogeneità del progetto, il risultato finale diede ragione al team di Iommi: benché voce e generi cambiassero ad ogni traccia, la produzione impeccabile e la qualità dei pezzi rese il tutto godibilissimo e al passo coi tempi. A dimostrazione della genuinità del progetto, molti dei brani presenti sul disco, tra cui le splendide performance di Dave Grohl e Billy Corgan, nacquero in studio di registrazione: “E’ stata quasi una sfida. Quando siamo andati in studio per la prima volta con Billy Corgan non avevamo niente di pronto. Abbiamo iniziato da zero. Ho iniziato a suonare dei riff e prima che ce ne rendessimo conto avevamo in mano delle canzoni con molte variazioni dentro. Le suonavamo live e poi le registravamo. E’ successo tutto velocemente”. L’alchimia col leader degli Smashing Pumpkins e l’ex Nirvana fu talmente forte da portare alla pianificazione di un tour mondiale, purtroppo abortito immediatamente. “Incontrai Dave a Los Angeles, il quale sembrava molto interessato a partecipare ad un tour mondiale con me. La stessa cosa era accaduta con Billy Corgan, incontrato invece in Inghilterra. Purtroppo la cosa si rivelò più grande di noi e, poco tempo dopo, tutto finì per arenarsi”. Nonostante la bontà del progetto, il disco ebbe un successo inferiore a quello che ci si potesse aspettare, molto probabilmente a causa di una sbagliata campagna promozionale. È singolare come dieci anni dopo, lo stesso identico progetto, con addirittura alcuni degli stessi cantanti, ma a nome ‘Slash’ (uguale anche la scelta del titolo) abbia fatto gridare al miracolo il mondo del rock. Dopo il riff di ‘Zero The Hero’, “rubato” e inserito in ‘Paradise City’, ancora una volta l’ex Gunners ha saputo trasformare un’idea sfortunata di Iommi in una gallina dalle uova d’oro. La tiepida accoglienza all’album fece rinascere i Sabbath, che per alcuni anni suonarono con Ozzy durante il festival itinerante creato dal Madman, ma senza registrare nulla di nuovo. In studio tornò invece Iommi, deciso a recuperare i vecchi nastri incisi con Glenn Hughes: videro così la luce le ‘Dep Sessions’, remixate e con nuove parti di batteria (Dave Holland era indagato per pedofilia e venne eliminato), che pur essendo semplici prove dimostrarono la validità della collaborazione e la ritrovata verve di Hughes, che aveva utilizzato alcuni dei brani nei suoi dischi solisti. L’entusiasmo suscitato dall’uscita fece tornare i due in sala prove, questa volta per concepire un album vero e proprio: “Prima che lo raggiungessi, Tony aveva già scritto le musiche di tre brani, poi ne abbiamo composti altri dodici insieme in tre settimane, suonati in diretta come un live” – ricorda Hughes – “Le ‘Dep Sessions’ erano costituite da bozze su cui io e Tony avevamo lavorato, non avevamo mai pensato di farne un vero album. Se ascolti pezzi come “Fine” o “Gone” ti accorgi subito che si tratta di puro divertimento”. ‘Fused’ uscì a doppio nome e, a sorpresa, venne prodotto da Bob Marlette: di certo rimane l’album più maturo dei due, forse perché composto nelle condizioni psicofisiche migliori per entrambi. Un album ricco di pathos, di brani che se usciti nell’83 avrebbero fatto gridare al miracolo, in cui Iommi dimostrava di non aver perso la capacità di sfornare riff granitici e claustrofobici e Hughes che nella vita si può cadere, ma anche avere una seconda possibilità. Singolare come, molti anni dopo, le strade di Iommi incrociarono di nuovo quelle di un altro vecchio amico di viaggio: Ian Gillan. Ritrovatisi per festeggiare l’anniversario di Rock Aid Armenia, con cui avevano contribuito ad aiutare le popolazioni colpite dal terribile terremoto, i due artisti decisero di unire le forse per Who Cares, un altro progetto benefico simile al precedente e ancora una volta ricco di star, tra cui Nicko Mcbrain degli Iron Maiden e Jon Lord. Le session diedero vita a due soli brani inediti, ma di fascino incredibile: Out Of My Mind e Holy Water, forse le cose migliori prodotte rispettivamente da un decennio a quella parte. Poco dopo, morto Dio, un altro vecchio amico l’avrebbe richiamato, ma questa è un’altra storia…
Tony Iommi: All’ombra Del Sabba
28 Dicembre 2015
Articoli
Giornalista musicale con esperienza decennale, Luca Garrò scrive o ha scritto per alcune delle riviste musicali più note del nostro paese, da Rolling Stone a Jam, passando per Rockstar, Rocksound, Onstage e Classic Rock, oltre ad essere uno dei fondatori del magazine online Outune.net. Appassionato di classic rock fin dall'infanzia, ha scritto centinaia di articoli sugli argomenti più disparati, tre libri per Hoepli (Freddie Mercury, David Bowie e Jimmy Page & Robert Plant) e sta curando una biografia su Brian May per Tsunami. Per cinque anni è stato tra i curatori del Dizionario del Pop Rock Zanichelli.
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