Se la figura di Madonna, per quanto ambigua e in parte artefatta, aveva contribuito a riaccendere i riflettori sull’universo artistico femminile alla metà degli anni ’80, la fine del decennio vedrà crescere in maniera esponenziale tutta una scena musicale in cui le donne, forse per la prima volta dalla fine degli anni sessanta, inizieranno a ricoprire davvero un ruolo centrale. Nonostante alcuni casi eclatanti come quello di Janis Joplin, Joni Mitchell, Nico e, dieci anni più tardi, Patti Smith, in un ambiente da sempre misogino e sessista che non si differenziava poi molto dalle altre sfere della società, la figura della donna aveva sempre fatto fatica ad emergere, schiacciata all’interno di meccanismi che la vedevano più oggetto del desiderio e musa ispiratrice piuttosto che compositrice e faro. L’ultima parte degli anni ottanta, invece, vide aumentare considerevolmente l’attenzione nei confronti di artiste che non si limitavano ad interpretare brani altrui o a muoversi mezze nude su brani disco music, ma capaci di sperimentare in modo sofisticato e di scrivere brani in grado di competere con i colleghi uomini, molto spesso avendo la meglio anche dal punto di vista commerciale. Aiutate probabilmente anche dal successo planetario di giovani artiste di generi differenti come Whitney Houston e Annie Lennox, in breve tempo i negozi di dischi e i giornali specializzati si riempirono di album di compositrici schive, riservate e di matrice classica come Suzanne Vega e Tracy Chapman, che si rifacevano un po’ ai vecchi miti Joan Baez e Joni Mitchell e di altre figure meno politically correct, come la shockante e fuori dalle righe Sinéad O’Connor. Umile e oltremodo riservata, Tracy Chapman cresce nell’Ohio e qui fin dalla tenera età impara a suonare diversi strumenti, manifestando da subito, oltre ad un’innata capacità melodica, un gusto per gli arrangiamenti acustici diretti scevri di sterili virtuosismi. Dopo essersi laureata in Antropologia Culturale Afroamericana, Tracy capì che il folklore era proprio ciò che più la appassionava oltre ai suoi fidi strumenti musicali, tanto che l’idea di unirli in una sola cosa venne da sé in modo quasi naturale. Dopo averla vista suonare in un piccolo locale di Boston, Tracy viene notata da alcuni addetti ai lavori, che la propongono a Elliot Roberts, manager di Joni Mitchell, che riesce a farle ottenere un contratto alla prestigiosa Elektra. Tutto ciò, unito alla voce ruvida e intensa fece sì che quando, nel 1988, l’omonimo disco di debutto giunse nei negozi di dischi, furono in molti a pensare di avere tra le mani il prodotto in grado di rivitalizzare finalmente il cantautorato folk americano, da troppi anni in una fase stagnante fatta di vecchi eroi ormai bolliti e nuove leve non in grado di prenderne il testimone. Ad impressionare del debutto della Chapman fu il grado di consapevolezza e di onestà intellettuale raggiunto a soli vent’anni, in grado di porla immediatamente a metà tra il miglior Dylan folk degli inizi di carriera e l’idolo Joni Mitchell, con un occhio puntato a quel Bruce Springsteen che in quel momento non poteva che rappresentare un faro per un’autrice di quella sensibilità. Da lì a diventare una sorta di portabandiera di tutti i nuovi artisti socialmente impegnati il passo fu molto breve, tanto da diventare alla fine del decennio una delle attrazioni principali del tour itinerante di Amnesty International e del Nelson Mandela Freedomfest. Per nulla frivola come molte colleghe che vedevano in MTV l’unico modo per apparire, ma nemmeno ostentatamente “contro” come chi si opponeva a quel modello, la poetica della Chapman anche nei dischi successivi si muoverà sempre lungo terreni in cui i problemi degli afroamericani e della società in generale vengono affrontati in modo diretto, ma con quella delicatezza rara e spesso antitetica rispetto agli argomenti trattati che ne caratterizzerà la carriera e che influenzerà stuoli di colleghe negli anni a venire.
Pur avendo catalizzato un po’ tutta l’attenzione sulle nuove leve del cantautorato yankee, la Chapman non fu la prima donna a scrivere brani di protesta dalla metà degli anni ottanta: qualche anno prima di lei, sempre con un album omonimo, debuttava infatti la giovane californiana Suzanne Vega, destinata ad influenzare al pari dell’autrice afroamericana cantautrici del decennio successivo come Tori Amos, Fiona Apple e Alanis Morissette. Antidiva quanto se non più della collega, anche la Vega vede in Joni Mitchell il proprio punto di partenza artistico, ma al guru Dylan forse preferisce il cantautorato e lo stile di Leonard Cohen. La vera folgorazione avviene però durante un concerto di Lou Reed sul finire degli anni settanta al Greewich Village: è qui che per la prima volta vede un artista affrontare con coraggio temi come la violenza e la disperazione, capendo che avrebbe potuto anche lei scrivere canzoni sugli ultimi, sui dimenticati da Dio, gli emarginati e i diversi. Insomma, che sarebbe potuta diventare una cantante folk. I testi minimalisti e scarni, fatti di frasi brevi e appena sussurrate, e le melodie tenui di cui il debutto era permeato fecero gridare al miracolo la stampa americana, su tutti il New York Times, che arrivò addirittura a definirla la cantautrice più personale, forte e completa degli ultimi dieci anni. Non tutti però sapevano che l’estrema sincerità e la franchezza delle sue liriche avevano origini lontane e drammatiche, che partivano anche nell’infanzia difficile e traumatizzata dalla scoperta che lo scrittore portoricano Ed Vega, che aveva sempre chiamato papà, in realtà era solo il genitore adottivo. Dover riconsiderare la sua identità contribuirà a modificarne sentimenti e stati d’animo, che si riverseranno completamente nella sua produzione. Esempio lampante della sua poetica, capace di resistere al passaggio degli anni, resta quella Luka, contenuta nella seconda prova da studio, che narra degli abusi sessuali subiti da un ragazzino nel corso della propria infanzia: un testo così intenso e sentito che solo il protagonista della vicenda poteva raccontare con così tanto trasporto. Anni dopo, in uno slancio di sincerità la cantante ammetterà che Luka, in realtà, era proprio la piccola Suzanne…Scrittrice più che rockstar anche dopo il successo planetario e poetessa malinconica, senza questa schiva ragazza cresciuta nella Grande Mela e convinta di avere nelle vene sangue portoricano, il rock femminile d’oltreoceano ed il boom di artiste e band che invase il pianeta nel decennio successivo forse non avrebbe avuto la stessa portata.
Come probabilmente non avrebbe avuto la stessa forza d’urto il futuro movimento delle Riot Grrrl senza l’apporto di un personaggio controverso e ammaliante come quello di Sinéad O’Connor. Nata nel 1966 a Dublino, anche Sinéad vive un’infanzia a dir poco travagliata, segnata prima dalla separazione dei genitori e poi dagli abusi della madre alcolizzata, che troverà la morte quando la figlia non ha ancora compiuto il ventesimo anno e pochi mesi prima del suo debutto discografico. Proprio il rapporto con la genitrice, insieme a quello ugualmente travagliato con la religione cattolica, saranno due dei massimi perni su cui poggerà l’intera poetica della O’Connor. Espulsa più volte da scuola e finita in riformatorio, la ragazza trova rifugio nella musica, l’unica cosa che non l’aveva ancora tradita nel corso della sua giovane vita. La sua vocalità fuori dalla norma, unita ad un’ambizione e a carattere combattivo e provocatorio che spesso la porta sulla soglia dell’autodistruzione, sono i marchi di fabbrica di una proposta musicale che mai si era vista nella storia del rock e che col tempo finirà anche per ritorcersi contro l’artista stessa. Esagerata e profondamente punk fin dagli esordi, a cavallo tra la fine degli anni 80 e il decennio successivo la O’connor spazierà da sonorità post punk all’hip hop e alternerà successi pop planetari venati di classe cristallina come Nothing Compares 2 U, una delle maggiori hit di un intera epoca, a polemiche ed insulti per i comportamenti sopra le righe o apertamente antisociali. La sua rabbia repressa si esprime così in comportamenti pubblici che, nel bene o nel male, finiscono per entrare nella storia della musica popolare quanto i suoi brani: tra i più noti, quello avvenuto in New Jersey quando si rifiutò di aprire un concerto con l’inno americano, oppure quando al Saturday Night Live distrusse davanti alle telecamere un’immagine di Papa Giovanni Paolo II, in risposta alle politiche della Chiesa Cattolica nella sua Irlanda. Le ripetute provocazioni, talvolta fini a se stesse e quasi sicuramente frutto dell’animo tormentato e incapace di trovare pace se non unicamente nelle sue stesse contraddizioni, minerà una carriera che vedrà comunque altri picchi assoluti, come l’invito (sempre segnato da proteste e insulti) alla celebrazione per i trent’anni di carriera di quel Bob Dylan che dopo aver influenzato Beatles e Stones, Hendrix e Neil Young, finì per essere anche il nume tutelare del nuovo rock a tinte rosa.