Nonostante l’intento del Live Aid di Bob Geldof, così come quello delle medesime iniziative dello stesso periodo, fosse quello di sensibilizzare l’opinione pubblica e l’ambiente musicale dal suo interno, i mega concerti in diretta mondiale ricchi di star portavano in seno già in partenza pericolose derive, che non tardarono ad arrivare. Insieme all’inevitabile disillusione per certi versi simile a quella seguita al fallimento della rivoluzione hippie, gli eventi di quel genere, che comunque continueranno ad essere organizzati con sempre meno convinzione nel corso dei decenni successivi, finirono paradossalmente per ridare vita ad un vecchio fenomeno legato agli spettacoli di massa che il movimento del ’77 aveva contribuito a far morire sul nascere: quello dei mega spettacoli concepiti come eventi di dimensioni sempre più imponenti e, per utilizzare un termine che da lì in avanti ricoprirà un ruolo sempre più importante nella vita di chiunque, multimediali. Show che, nella maggior parte dei casi, erano sempre più slegati dall’aspetto musicale e completamente autocelebrativi. Fino alla metà degli anni settanta, gli spettacoli rock vertevano sul carisma, sulla fisicità e sull’abilità dei musicisti di portare il proprio pubblico in un’altra dimensione senza l’utilizzo di elementi visivi e scenografie cinematografiche: avevano fatto così tanto Elvis con i suoi sensuali movimenti pelvici, che Chuck Berry e il suo duck walk, così come gli Who distruggendo gli strumenti e i Sex Pistols sputando addosso ai propri fan e al mondo intero. Di colpo, però, gruppi come Genesis e i Pink Floyd iniziarono a concepire gli show come un’esperienza sempre più vicina alle arti visive tout court. Forse per via degli studi artistici di tre dei suoi membri, oppure per semplice inclinazione, la band di Dark Side Of The Moon aveva mostrato fin dagli esordi una tendenza alla messa in scena della musica che componevano, grazie ad artifici scenici in grado di coinvolgere il pubblico in un’esperienza che fosse più del frutto della loro semplice immaginazione. In questo senso, la messa in scena di The Wall può essere vista come l’ antesignana di tutti i mega tour di cui gli anni ottanta, e la prima parte dei novanta, furono invasi. Quella che, inizialmente, con Syd Barrett sembrava una semplice voglia di contaminazione tra arti, dieci anni dopo si era trasformata in qualcosa da cui sarebbe stato difficile tornare indietro e che di fatto finì per portare alla rottura definitiva tra i membri del gruppo stesso. Un muro enorme, simbolo della distanza tra pubblico e artista, che veniva costruito e distrutto durante la serata, uno schermo circolare gigante che diventerà uno dei loro simboli più noti, luci stroboscopiche e un’attrezzatura in grado di assumere proporzioni inimmaginabili, oltre al celeberrimo impianto quadrifonico, fecero dello show uno dei più costosi della storia, ma che non riuscì a ripagare le enormi spese sostenute, che ne decretarono poi la conclusione anticipata. Il momento economico e culturale propizio, unito al clamore mediatico seguito ai mega raduni della metà del decennio, riuscirono però a riaccendere quella scintilla, forse non così amica della musica, che l’ondata punk sembrava aver spento per sempre. Le produzioni mastodontiche ripresero come se Johnny Rotten non fosse mai esistito e i principali protagonisti furono, nemmeno a dirlo, quasi sempre band che al Live Aid avevano preso parte e che nel ’77 erano state definite simpaticamente dinosauri o vecchie scoregge. La band che nell’immediato riuscì ad ottenere maggiori benefici da questo crogiolo di variabili furono senza dubbio i Queen: sull’orlo dello scioglimento il giorno prima del Live Aid, la band di Freddie Mercury sul palco fu l’unica in grado di tenere in pugno l’intero stadio di Wembley, dimostrando di avere pochi rivali al mondo e capendo allo stesso di poter replicare quello show in giro per il pianeta. Da lì ad un anno la Regina si impegnò a frantumare qualsiasi record precedentemente stabilito, tanto dal punto di vista degli spettatori paganti, quanto di quello dei paesi visitati, alcuni dei quali non avevano mai potuto assistere ad un concerto rock. A differenza dei Pink Floyd, tuttavia, il gigantismo interiore di Mercury e compagni si espresse più che altro nelle dimensioni degli spazi occupati, più che negli elementi extra musicali portati sul palco: al di là di un palco enorme, dei maxi schermi e di un impianto luci di cui erano sempre stati precursori, i quattro musicisti sapevano di avere la loro carta migliore nell’esecuzione dei brani e la sfruttarono al meglio per quello che, col senno di poi, finì per essere anche il loro ultimo tour mondiale. Diverso fu il caso di fenomeni pop multimilionari come Madonna e Michael Jackson, i cui show portarono all’estremo l’idea di spettacolo multimediale inteso da Roger Waters e svuotandolo anche della provocazione e del concetto che stava dietro a quel progetto. A ciò va aggiunto che, nello stesso periodo, gli sponsor si resero conto che la musica popolare non aveva ancora sfruttato quasi per niente le proprie cartucce e che sarebbe potuto diventare uno dei maggiori veicoli pubblicitari al mondo: sfruttando la centralità che ormai i mezzi televisivi avevano ottenuto anche in ambito musicale, le più grandi marche di prodotti dedicate alla fascia d’età che andava dai quindici ai trent’anni, iniziarono a fiondarsi non solo sulle star più popolari, ma anche su tutto quello che in qualche modo poteva gravitare loro intorno. Un marchio come Pepsi divenne in pratica il maggior finanziatore dei concerti di Jackson, che a sua volta recitava negli spot della celebre bibita gassata, in uno scambio vicendevole di “favori” che faceva fatturare ad entrambi centinaia di milioni di dollari. Lo stesso Jackson, in questo senso, rappresentava meglio di chiunque altro i diversi spiriti di quel periodo: da una parte la voglia di mostrarsi vicino alle popolazioni in difficoltà, la sensibilità nei confronti degli ultimi e le continue azioni benefiche, dall’altra una serie di spettacoli e apparizioni pubbliche sempre più autocelebrative e completamente ridondanti, spesso però figlie di un disagio interiore che dopo il successo planetario di Thriller finirono per condizionare per sempre la vita e la carriera artistica di Jacko. A beneficiare di tutto il clamore mediatico legato a questi mega eventi non furono solo gli eroi del rock degli anni settanta e i nuovi idoli del pop, ma anche i protagonisti di ogni altro genere, in particolare della nuova ondata hard rock, che MTV aveva adottato con convinzione: gruppi hair metal come Mötley Crüe e i primi Bon Jovi, così come i nuovi pionieri della musica pesante Iron Maiden, Metallica o Guns ‘N’ Roses finirono per diventare abitué degli stadi che fino ad allora erano stati appannaggio di band con almeno dieci anni carriera alle spalle. Insomma, pur non potendola considerare una conseguenza diretta del fenomeno, quella che per Geldof doveva rappresentare un’ideale sveglia per il mondo, aveva finito per far ripartire una macchina da soldi di cui un’altra band presente al Live Aid diventò una sorta di emblema: gli U2.
Dossier 80’s: Il Rock Dopo Il Live Aid
14 Dicembre 2015
Articoli
Giornalista musicale con esperienza decennale, Luca Garrò scrive o ha scritto per alcune delle riviste musicali più note del nostro paese, da Rolling Stone a Jam, passando per Rockstar, Rocksound, Onstage e Classic Rock, oltre ad essere uno dei fondatori del magazine online Outune.net. Appassionato di classic rock fin dall'infanzia, ha scritto centinaia di articoli sugli argomenti più disparati, tre libri per Hoepli (Freddie Mercury, David Bowie e Jimmy Page & Robert Plant) e sta curando una biografia su Brian May per Tsunami. Per cinque anni è stato tra i curatori del Dizionario del Pop Rock Zanichelli.
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