A sei anni dalla scomparsa e a molti di più dagli scandali per i quali tutti quelli che oggi lo osannano si vergognavano di dire di ammirarlo, è più semplice focalizzare l’attenzione non sugli aspetti morbosi che da sempre circondano la figura di Michael Jackson, ma sull’unica cosa per cui tutti lo ricorderemo fra cinquant’anni: l’immenso talento musicale. Il proprio dono, Michael, fu costretto a scoprirlo molto presto, tanto da diventare, ancora bambino, il più giovane leader di un gruppo musicale di successo, i Jackson Five. Si è effettivamente così abituati a sentir parlare dell’autore di Thriller in termini di King Of Pop, che troppo spesso ci si dimentica del suo fondamentale contributo alla musica nera: può essere un caso che qualsiasi artista o produttore del settore, interrogato nei primi anni ’80 sulla star con cui avrebbe voluto lavorare, rispondesse immediatamente con il nome di Jackson? Forse no, cerchiamo di capire perché. Già all’età di 5 anni, il piccolo Michael veniva obbligato a girare di locale in locale per cercare di attirare l’attenzione degli addetti ai lavori, facendo in modo di ottenere un contratto discografico per sé e per i suoi fratelli meno dotati. L’impresa, ricercata con ogni mezzo lecito e illecito dal padre Joe, riuscì alla perfezione, spedendo il gruppo nelle braccia di mamma Motown, il sogno di qualsiasi artista di colore dell’epoca. Per certi verso è l’inizio di un grande sogno, per altri l’immenso furto di quella fanciullezza che, da lì alla prematura scomparsa, Michael cercherà vanamente di riprendersi, senza tuttavia riuscirci. Gli addetti ai lavori, in primis Diana Ross, capirono in brevissimo tempo che il ragazzino era il vero talento del gruppo, non solo per le spiccate doti canore, ma anche per i movimenti da musicista navigato che mostrava di possedere. Il piccolo, infatti, si muoveva già con estrema sicurezza sia sopra che fuori dal palco e fu proprio in quel momento della sua vita che intuì che il ballo sarebbe stato uno dei suoi migliori e più fidati compagni. L’ammirazione al limite dell’ossessione per James Brown portò il giovane cantante a passare intere ore davanti allo specchio ad imitarne le mosse (la più riuscita delle quali rimane di certo il microfono lasciato cadere e ripreso al volo prima di raggiungere terra). In aggiunta, Michael mostrava uno spiccato senso per gli affari, cosa che da lì a pochissimo tempo l’avrebbe portato a trattare direttamente i propri contratti con le case discografiche. Nonostante il boicottaggio di diversi mezzi di informazione per motivi squisitamente razziali, i successi della band non si fecero attendere più di tanto: fin da principio, infatti, ogni singolo pubblicato dai cinque afroamericani raggiunse le posizioni più alte delle charts americane, allargando a macchia d’olio la loro fama nel mondo nel giro di pochissimi mesi. Lo stile rivoluzionario, che arrivava a fondere per la prima volta il funky tipico della black music con caratteristiche proprie invece della musica bianca, lasciò tutti di stucco ed ebbe il grande merito di spianare la strada al decennio di quella che tutti conoscono con il nome di disco music. Quando un loro singolo sorpassò in classifica niente meno che “Let it be” dei Beatles, anche i più scettici dovettero arrendersi: i cinque non erano una meteora, ma qualcosa destinata a fare la storia del genere.
Col tempo, tuttavia, le cose iniziarono a cambiare e, nel momento in cui per il gruppo gli affari diventavano sempre più difficili, in MJ cresceva la consapevolezza di avere qualcosa in più rispetto agli altri: con gli anni, infatti, la sua autostima aveva fatto passi da gigante e la naturale evoluzione di tale consapevolezza fu la volontà di incidere un album solista. La Motown non si oppose minimamente, considerata la fama che ormai lo circondava, ma contestò ancora la volontà di pubblicare pezzi scritti dal ragazzo. Preferiva infatti, come per i Jackson 5, fargli interpretare pezzi altrui, in modo da limitare i costi andando inoltre sul sicuro. Joe Jackson vide la volontà del figlio come un abbandono della famiglia e lo costrinse a mettere ancora una volta i fratelli di fronte ai desideri solisti, per un gioco psicologico perverso che, a conti fatti, Michael proseguì persino dopo il mostruoso successo di Thriller. Al primo disco in proprio ne fecero seguito altri tre, tutti discreti successi, con il picco della celeberrima Ben, ma Michael non sembrava mai soddisfatto di ciò che gli veniva proposto. Ad ogni modo, il futuro Re Mida del music business restava l’unica vera attrazione dei Jackson 5, tantp che la Motown iniziò a presentare la band come Michael Jackson and The Jackson 5, cosa che, oltre a mandare su tutte le furie il padre, creava non poche tensioni tra i membri stessi del gruppo. La realtà, però, era ormai davanti agli occhi di tutti: un album registrato senza Michael si sarebbe rivelato un flop e nessuno voleva che questo accadesse. Quando, per problemi di carattere artistico, i rapporti con la Motown si incrinarono e i cinque passarono alla CBS e da lì a breve alla Epic, gli “affari di famiglia” sembravano arrivati davvero al capolinea, anche se il cambio di scuderia si rivelò un colpo da novanta. Pur dovendo cambiare il proprio nome in The Jacksons, fu loro permesso di scrivere i propri pezzi, cosa che Joe e l’entourage chiedevano da tempo immemore. Il successo tornò a sorridere, ma non fu così per Michael, sempre più chiuso in un autoisolamento che sarebbe arrivato alle estreme conseguenze solo qualche anno più tardi. La dimensione in cui era relegato non faceva più per lui. Anni di sacrifici e maltrattamenti uniti al grande successo ottenuto avevano fatto sorgere in lui sentimenti contrastanti, fatti di ambizioni sfrenate unite ad una sacrosanta voglia di potersi godere la propria età come gli altri ragazzi. Tutto ciò segnò probabilmente in modo indelebile la psiche di Jacko, che pareva non riuscire mai a godersi il momento senza pensare ad un nuovo traguardo da raggiungere. A questo punto della sua vita, comparve Quincy Jones, forse l’uomo fatto apposta per soccorrere e sostenere entrambe le sue personalità. Aiutò il bambino a crescere con l’affetto che mai aveva ricevuto in giovane età e l’artista a raggiungere la vetta del mondo. In lui Michael trovò un padre premuroso, che gli dava consigli di vita e lo incoraggiava e, contemporaneamente, uno degli uomini che avevano contato di più nella musica nera del ‘900. Tutt’oggi, per alcuni, il loro binomio è ritenuto superiore a quello Lennon/Mccartney. Incontratisi per caso sul set di The Wiz (fallimentare riproposizione black del Mago di Oz), i due divennero amici e confezionarono quello che molti credono essere il primo album solista di Michael, ma che in realtà fu soltanto il primo per la Epic: Off The Wall. Il successo strepitoso che ne conseguì spazzò via le voci che davano la sua fama in declino appena dopo la maggiore età: venticinque milioni di dischi, quattro singoli estratti (mai successo prima) ed il primo di una lunga serie di Grammy. Il falsetto di Don’t Stop ‘Til You Get Enough era davvero qualcosa di mai sentito e l’album, con l’esclusione della toccante She’s Out Of My Life, rimane uno dei più ballabili di sempre.
Da qui in poi, il bambino prodigio lasciò per sempre spazio alla superstar. Paradossalmente, tuttavia, il quattordicenne che anni prima aveva affrontato a quattrocchi i vertici della Motown come fosse un artista fatto e finito, si stava lentamente trasformando in un adulto dall’animo fanciullesco e dalla mente rapita da fantasie ormai difficili da realizzare. Il primo sintomo della sua fragilità interiore, che però ai tempi passò inosservato, avvenne alla consegna dei Grammy: alla fine della serata, Michael fu trovato a piangere in solitudine per aver ottenuto solo un premio e per aver venduto meno di quello che pensasse. Tutto questo dopo essere diventato il primo ventenne di colore ad aver infranto record che nemmeno Elvis aveva raggiunto in carriera. La rabbia dovuta ai mancati traguardi del disco fu la molla che portò alla registrazione di quello che è stato e che, a maggior ragione dopo la sua scomparsa, sarà per sempre l’album più venduto della storia. Album che, per assurdo, esordì in classifica in modo peggiore rispetto al suo predecessore, ma che dopo l’uscita del secondo singolo Billie Jean creò quella “Jacksonmania” che pervaderà totalmente il decennio appena iniziato. Piccola curiosità. Nel 1980 i Queen uscivano sul mercato mondiale con l’album The Game, contenente Another One Bites The Dust, il loro pezzo black per eccellenza e il singolo più venduto in America della loro carriera. A consigliare loro di pubblicarlo fu proprio Jackson, diventato intimo amico di Freddie Mercury, che lo riteneva perfetto per un mercato esigente come era quello d’oltreoceano. Peccato che il tentativo di collaborazione tra i due diede vita ad un paio di brani che la storia avrebbe dimenticato prestissimo. Ma questa è tutta un’altra storia.