Quando Bob Geldof si trovò a dover scegliere un artista in grado di concludere nel miglior modo possibile il suo Live Aid, la scelta cadde in modo quasi scontato su colui che nell’immaginario comune, in primis in quello dello stesso Geldof, veniva considerato come il faro supremo e imprescindibile di ogni lotta o protesta attuata in musica: Bob Dylan. La scelta, in effetti, poteva sembrare più che sensata, poiché l’autore di Blowin’ In The Wind era sempre stato visto come il punto di riferimento assoluto per chiunque avesse iniziato a fare musica dai primi anni sessanta in poi, fossero questi cantanti di protesta o meno. Suoi coetanei come Hendrix o i Bestles, non proprio nomi qualsiasi, si sarebbero immolati per lui, così come qualsiasi folk singer da una parte all’altra del pianeta. Quello che Geldof non aveva considerato, tuttavia, era il fatto che le azioni del menestrello di Duluth spesso non fossero minimamente prevedibili. Dylan, infatti, si era già mostrato scarsamente coinvolto al momento delle registrazioni di We Are The World, uno dei due inni legati allo show insieme a Do They Know It’s Christmas?, non perché non fosse sensibile alla problematica, ma perché non ne condivideva fino in fondo la modalità. Ad ogni modo, l’ideatore del Live Aid non sembrò più di tanto preoccupato dai segnali lanciatigli, restando convinto del fatto che Dylan fosse l’unico nome davvero spendibile per chiudere in modo trionfale quella scommessa. La storia, tuttavia, non gli diede ragione. Se il buon Geldof era infatti riuscito nell’impresa di riunire band con Led Zeppelin, Black Sabbath e Queen (praticamente sciolti da mesi), non si può certo dire che il fato fosse dalla sua parte anche al momento dell’ultima esibizione alla stadio di Filadelfia. Dylan decise infatti di condividere il palco con gli amici Ron Wood e Keith Richards, gente che, quando decideva di sballarsi un po’, era in grado di passare l’intero pomeriggio a bere whisky e a fumare cannabis su un camper prima di suonare davanti al più grande pubblico televisivo di sempre. Il risultato fu disastroso, per alcuni addirittura il peggiore show della storia della musica: ognuno dei musicisti suonava per conto suo, in particolare Keith Richards, che per tutta la durata dello show non riuscì mai a capire dove fosse. Comica anche la scena della rottura della corda di Dylan, risolta in un tempo lunghissimo nell’imbarazzo generale, per non parlare poi della frase dello stesso cantautore con cui invitava la gente a pensare non solo all’Africa, ma anche ai contadini americani che stentavano a sopravvivere. Insomma, non proprio quello che si sarebbe aspettato Bob Geldof. A ben vedere, però, potrebbe essersi trattato del momento più genuinamente rock n roll di tutta la kermesse…
Live Aid: Il Fallimento Di Bob Dylan
12 Ottobre 2015
Articoli
Giornalista musicale con esperienza decennale, Luca Garrò scrive o ha scritto per alcune delle riviste musicali più note del nostro paese, da Rolling Stone a Jam, passando per Rockstar, Rocksound, Onstage e Classic Rock, oltre ad essere uno dei fondatori del magazine online Outune.net. Appassionato di classic rock fin dall'infanzia, ha scritto centinaia di articoli sugli argomenti più disparati, tre libri per Hoepli (Freddie Mercury, David Bowie e Jimmy Page & Robert Plant) e sta curando una biografia su Brian May per Tsunami. Per cinque anni è stato tra i curatori del Dizionario del Pop Rock Zanichelli.
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