Neal Preston non è solo uno dei più celebri fotografi della storia del rock, ma è quello che potremmo tranquillamente definire una vera e propria rockstar dello scatto: i tour a cui ha avuto la possibilità di accedere in veste di fotografo ufficiale non si contano, così come il numero di scatti diventati copertine delle più celebri riviste di settore, ma c’è di più. Preston, infatti, è sempre riuscito nell’impresa di diventare amico delle band di cui diventava dipendente, tanto da possedere un archivio ricco di momenti privati, oltre che dei classici posati. Queen, Rolling Stones, Who, ma soprattutto Led Zeppelin, sono stati il pane quotidiano dei suoi ultimi trentacinque anni di vita, parte dei quali raccontati, oltre che fotografati, nello splendido Led Zeppelin – Sound And Fury, libro digitale ricco di contenuti multimediali che pochi anni fa fece la gioia dei fan della band.
Neal, per un fotografo vecchio stampo come te, credo che pubblicare un libro digitale abbia rappresentato una vera e propria svolta. Pensi sia questo il futuro del tuo lavoro?
In realtà, se conosci la mia età saprai che non è che abbia davanti a me tutto questo futuro (ride, ndr). In ogni caso, parliamo di qualcosa di diverso da un semplice libro digitale: in pratica possiamo parlare di una vera e propria applicazione, ricca di contenuti multimediali, oltre che di foto inedite e di miei scritti. Sostanzialmente sono sempre stato un giornalista fotografo e le velleità di scrittore non sono passate con l’età! A parte gli scherzi, credo che la vera rivoluzione stesse nel prezzo, che ha permesso anche a chi non poteva comprare un costoso libro fotografico, di vedere cosa succedeva con gli Zep negli anni settanta…
Le leggende a proposito fioccano da quarant’anni, questo è il momento per sfatarne qualcuna e, magari, avvallarne altre. Credo non fosse facile distinguere il lavoro dal divertimento creato dagli stili di vita completamente fuori controllo di chi fotografavi…
Sai, conosco personalmente autori che raccontando pettegolezzi su Robert Plant e Jimmy Page hanno costruito imperi. In questo senso, spesso la band ha avuto un peso importante: basti pensare al discorso legato alla magia nera…Pagey ha fatto di tutto per creare quell’alone di mistero che ha poi dato origine a tutti quei miti, stando bene attento a non parlarne mai pubblicamente, nemmeno ai giorni nostri. Così ancora oggi c’è chi pensa che la notte della morte di Bonham lui stesse officiando chissà quale rito satanico di fronte al suo letto! Jimmy rimane uno dei maggiori uomini di marketing che abbia mai conosciuto. Ad ogni modo, una sera, un po’ brilli mi confessarono che la famosa leggenda delle pinne di squalo usate come giocattoli sessuali non era una completa invenzione e ti garantisco che il 90% delle leggende a sfondo sessuale sono verissime e talvolta anche censurate. Parliamo degli anni settanta, loro erano giovani, famosi e ricchissimi: era inevitabile che si sfasciassero di droghe e fossero circondati di figa. Andava bene a tutti, anche a me (ride, ndr).
Qualcuno ne ha anche pagato le conseguenze, sia di quello stile di vita, sia delle dicerie create ad hoc per far parlare la stampa.
Sicuramente, anche se non credo in misura così maggiore rispetto a giovani di quel periodo che non suonavano nei palazzetti. Certi comportamenti fanno parte della crescita di chiunque e di qualsiasi ceto sociale. Certo, se hai più possibilità è più facile abusarne, ma sai bene che chi era destinato a morire in quel modo l’ha fatto anche al di là dei riflettori. Per quanto riguarda le dicerie, effettivamente, spesso si ritorcono contro l’artista. Page, ad un certo punto, era esasperato dalle domande su Crowley e il satanismo, così come credo che Michael Jackson abbia rimpianto più volte di aver avallato le notizie divulgate dal suo ufficio stampa. Proprio con Page un giorno parlavamo della dichiarazione di Keith Richards riguardo all’essersi sniffato il padre dopo lacremazione. Il giorno dopo, l’entourage degli Stones gli ha consigliato di ritrattare, ma entrambi sappiamo che quelle ceneri sono finite nel suo naso. La trovai anche una cosa poetica.
Immagino ti sia capitato di trovarti di fronte a situazioni quantomeno singolari, nel bene e nel male. Qualcuna che ricordi in modo più vivido?
I momenti più assurdi li ho passati sicuramente in compagnia di Bonham e Page. Bonzo era una persona stupenda, di una sensibilità rara, ma era davvero in grado di diventare una furia durante le sue famose serate alcoliche. Penso di essere una delle persone finite in questura il numero maggiore di volte senza mai aver avuto nulla a che vedere con atti criminosi e ti garantisco che questo non è per niente divertente. Certo, essere amico di una band come i Led Zeppelin garantiva anche un viavai di ragazze disposte a tutto come mai mi era capitato in precedenza e, soprattutto, come non mi sarebbe più capitato. E di band di scopatori negli anni ottanta ne è esistita qualcuna…Per tornare al problema di separare lavoro e divertimento, posso solo dirti che spesso le cose più belle le ho fatte proprio quando le due cose coincidevano. Sai, prima di avere un nome nel settore non accettavo nemmeno una birra, quando invece capisci che ti puoi permettere ogni cosa, allora superi le tue stesse paure e, paradossalmente, ottieni gli scatti più belli.
All’inizio del libro, parlando del tuo primo incontro col gruppo, dici di essere rimasto sconvolto dalle definizioni della stampa, che parlava degli Zep come del gruppo che aveva superato in popolarità i Beatles. La consideravi un eresia?
Di più, la consideravo una cosa completamente blasfema! Io ero uno di quelli che quando Lennon fece la celebre dichiarazione su Gesù, capii immediatamente che non si trattava di un’esagerazione. Nessuno aveva mai smosso gli animi in quel modo a livello socio culturale, per lo meno nel novecento. Devi pensare poi che quando partecipai a quella conferenza, i Beatles si erano appena sciolti, quindi tutti quelli della mia età erano dei veri e propri orfani. Quindi, scoppiai a ridere quando il Melody Maker si espresse in quei termini. Oggi sarei meno drastico, anche se non saprei ancora scegliere tra Who, Zeppelin e Fab Four.
Tra gli altri, hai lavorato anche con i Queen, un gruppo che agli esordi veniva considerato una copia carbone dei Led Zeppelin e che in seguito avrebbero messo a ferro e fuoco mezzo mondo proprio come loro.
I Queen forse sono l’altra band con cui abbia lavorato maggiormente dalla fine degli anni settanta all’ultimo tour prima della morte di Freddie. Anche loro avevano fama di essere festaioli incalliti, ma la mia esperienza con loro è stata di quelle che augurerei a tutti quelli che fanno il mio mestiere: professionali, precisi e quattro persone i cui ego non hanno mai avuto la meglio su nessuno, dall’uomo delle pulizie al manager. Freddie amava divertirsi, ma era dotato di una professionalità incredibile, per lui i fan venivano prima di tutto, forse perché era tutto quello di cui aveva davvero bisogno. Il palco era l’unico ambiente in cui tutte le sue insicurezze sparivano, in cui il suo personaggio lo faceva diventare una vera puttana. Mi manca moltissimo.